La mitologia dei Chipaya racconta che sono venuti dal mare.
Loro sono gli indigeni più antichi della Bolivia, forse dell’intera area andina, forse dell’intero continente latinoamericano.
Parlano lingua uru, che nulla ha a che vedere con l’aymara o il quechua, le lingue originarie principali degli altopiani andini. Alcuni studiosi hanno legato il ceppo uru con il maya, con l’arabo e perfino con alcuni dialetti africani.
La loro cultura – difesa con durezza dai pochi rappresentanti – è circondata dal mistero, ma gli aymara sono i primi a riconoscere la grande sabiduria ancora viva in essa: “Sono grandi chamanos (sciamani), parlano con gli elmenti naturali, sono guaritori”, dice Antonio, che ci fa da guida con la su jeep davvero eroica in questi 4 giorni al Salar de Uyuni. Un lampo di serietà attraversa i suoi occhi, lui che è sempre lì che sghignazza mentre ci offre le foglie di coca da pinchare (masticare), unico rimedio efficace e naturale per sopportare i 3 - 4000 metri di altitudine del giro, e mentre ci fa ascoltare le sue musicassette anni ’80 – Rod Steward e robe simili – completamente distorte dal sole, dal sale, dalla radio che ha trent’anni.
I chipaya hanno caratteristiche somatiche particolari, i loro vestiti hanno i colori della terra e del fango, le donne portano i capelli divisi in 60 treccine. Sono adoratori dei morti e dicono di discendere dai costruttori di chullpa, le tombe antiche che ancora si possono incontrare sulle rive del lago Poopò, vicino ad Oruro, e al Titicaca.
Loro forse sono gli ultimi discendenti della cultura Tihuanacu. Dicono di venire dal mare. Per questo per loro il Salar de Uyuni – e il gemello più piccolo, il Salar de Coipasa – sono luoghi sacri: erano immensi laghi salati. Il salar de Uyuni è la distesa di sale più grande al mondo. Attarversarlo fa predere il contatto col tempo e lo spazio. Giochi di luce, miraggi, riflessi e aria rarefatta fanno il resto.
I Chipaya forse saranno gli unici a non essere d’accordo sullo sfruttamento del Salar de Uyuni per l’estrazione del litio, che il governo Morales ha recentemente decretato, in barba alle offerte che le multinazionali di mezzo mondo - Mitsubishi, Sumitomo, LG , Bollore dalla Francia, ultima anche la Russia con Gazprom - stavano avanzando per mettere le mani su quel tesoro inestimabile. Sotto il Salar de Uyuni, una distesa di sale di quasi 12.000 metri quadri di primordiale bellezza nel sud ovest della Bolivia, è conservata la più grande riserva di litio del mondo, circa 5, 5 milioni di tonnellate. Praticamente la metà di quella esistente. Il rimanente è diviso fra Tibet, Argentina, Cile.
Il litio serve per tutto ciò che ha sapore di futuro: pile, Blackburry, cellulari, PC, reattori nucleari, aereonautica. Ma sono le automobili di nuova generazione, quelle che hanno rotto il cordone ombelicale con il petrolio, a rappresentare la scommessa commerciale rivoluzionaria del 21 secolo: le ibride in cui le grandi – General Motors, BMW, Chrysler, Toyota e via dicendo – hanno già investito largamente in prototipi.
Evo Morales ha annunciato che la Bolivia correrà da sola. In linea con i principi espressi dalla Costituzione statale appena approvata (lo scorso gennaio), e con la politica di nazionalizzazione delle risorse naturali– già praticata con idrocarburi e gas – un progetto pilota gestito dalla statale Corporación Minera de Bolivia (Comibol) è già partito, con una prospettiva di estrazione attorno alle 1200 tonnellate.
Tutto questo cambia radicalmente la posizione della Bolivia. Da paese più povero del continente, si ritrova ad avere uno strepitoso potere contrattuale.
C’è fermento anche sulle rive del Salar. Qui abitano circa 60.000 persone, perlopiù impegnate a sopravvivere coltivando quinoa e patate ed estraendo sale. A Colchani, nel nord est di Uyuni, la locale coperativa Rosario ne estrae 20.000 tonnellate. Poi, da qualche anno c’è il turismo. Si sono fatti esotici alberghi di sale, e le ragazze e i bambini insistono per venderti piccoli lama e tazzine di sale. C’è una carcassa del treno attaccato da Butch Cassidy y Sundace Kid, che qui intorno ci hanno lasciato le penne. Ci sono fenicotteri rosa e vigogne e lagune dai mille colori. Un paradiso incontaminato visitabile con viaggi organizzati e tour.
Antonio, ormai più amico che semplice guida, ci racconta della sua povertà, della sua famiglia. “Con il turismo ora campo. Se arriveranno le miniere di litio, almeno spero che noi locali potremo guadagnarci. Evo l’ha promesso”. Nel 1992 la popolazione aveva cacciato la statunitense Lithium Corporation. Ma ora le cose sono diverse. C’è il primo presidente indigeno della Bolivia che ha promesso lo sfruttamento del sottosuolo alle popolazioni locali. La Frutcas, federazioni che riunisce i contadini dell’Altipiano, ha già dato il suo appoggio ufficiale al progetto di etsrazione del litio.
Noi che scivoliamo accanto alla Isla Inca Huasi, un’isola nel mezzo della distesa del Salar coperta di cactus giganti fioriti di bianco e giallo, vorremmo stare con i Chipaya. Ballare con loro nelle feste dei morti invocando la protezione del Creato con le teste di lama nelle mani e i pesci secchi appesi alle vesti. Non ne siamo capaci. Non ne abbiamo proprio diritto. Possiamo solo sperare che questa impronta di eternità nel cuore della Bolivia si mantenga integra. Oppure, che la Bolivia non sia più povera. Oppure che non si debba sempre scegliere sempre fra le due.
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