Beit Sahour (Cisgiordania), 02 febbraio 2012, Nena News – La scarsa disponibilità d’acqua è un problema comune a tutte le comunità palestinesi in Cisgiordania ma alcune realtà sono più colpite di altre. Il distretto di Betlemme – che comprende al suo interno i centri di Betlemme, Beit Sahour, Beit Jala, Ad Doha e Al Khader e i campi di rifugiati di Aida, Dheisheh e Al Azza – è in cima a questa ben poco onorevole lista.
“La stagione estiva è un vero e proprio disastro per noi”, afferma il Direttore Generale del Distretto dell’Acqua di Betlemme, Dottor Simon Lagare. “Quest’ufficio è letteralmente inondato di gente che si lamenta per la totale mancanza d’acqua in casa ed è frustrante per noi dover ammettere che non si può far niente per aiutarli. Balbettiamo scuse dopo scuse ma la realtà è che non possiamo dare loro ciò che vogliono – l’acqua, per l’appunto”.
Nel distretto di Betlemme, l’acqua è distribuita dalle autorità palestinesi locali che a loro volta la ricevono dal Dipartimento dell’Acqua della Cisgiordania, situato in Area C, a nord-est di Betlemme, sotto controllo israeliano. Questo bacino artificiale condivide le sue risorse acquifere con Mekorot, la compagnia nazionale israeliana per l’acqua, ma, a causa di alcune clausole contenute negli Accordi di Oslo che prevedono per i palestinesi il solo utilizzo della poco produttiva fascia compresa tra il suolo e i 130m di profondità come zona di estrazione, il distributore d’acqua ufficiale palestinese è costretto ad acquistare dell’altra acqua dai pozzi israeliani per supplire alla deficienza delle sue personali riserve.
Secondo le statistiche ufficiali, Israele ha il controllo sul 70% delle risorse acquifere palestinesi in Cisgiordania. Se i palestinesi non hanno accesso ad un’equa porzione d’acqua e sono affetti dalla mancanza d’acqua dei loro distributori ufficiali, non si può certo dire che i vicini coloni israeliani condividano le stesse pene.
“Sei mai stata all’interno di un insediamento israeliano?”, domanda Charlie, un giovane residente nel centro storico di Betlemme. “Se avrai mai l’occasione, noterai il lusso nel quale vivono i coloni. Hanno splendidi giardini, piscine colme fino all’orlo. E sicuramente non badano all’acqua che normalmente usano per lavarsi, pulire o far giardinaggio, come invece siamo costretti a fare noi.”
La falda acquifera occidentale è l’unica e sola risorsa d’acqua rimasta ai palestinesi mentre Israele può servirsi di altre due falde sotterranee oltre a questa. Ciò detto, e tenendo presente che i palestinesi costituiscono la gran maggioranza dei residenti della Cisgiordania, annualmente Israele consente ai palestinesi il solo utilizzo del 20% dell’acqua disponibile.
Come Charlie afferma, “se in futuro gli israeliani riterranno che le loro risorse d’acqua non sono sufficienti, non dovranno far altro che chiudere il tappo del pozzo dal quale ci serviamo oggigiorno per godere anche del nostro limitato quantitativo.”
Il momento più duro da affrontare per i palestinesi in termini di disponibilità d’acqua è la calda e secca estate. L’intero distretto di Betlemme è affetto da una prolungata mancanza d’acqua e, nonostante la situazione sia differente a secondo del ceto di provenienza e della zona in cui si abita, ognuno deve pagarne il prezzo.
Majdi, il proprietario di un noto negozio di manufatti beduini nel centro di Betlemme, spiega come la scorsa estate abbia dovuto acquistare quattro taniche d’acqua da rivenditori privati israeliani perché l’intera zona non ha visto una singola goccia d’acqua per un mese e mezzo. “Il prezzo per ognuna di queste taniche era stato caricato del 300% rispetto al prezzo originale ma non potevo fare altrimenti.”
Un altro motivo di screzio tra compaesani riguarda l’allocazione dell’acqua disponibile. Alberghi, ristoranti e alcune fabbriche dipendono dall’acqua per la loro stessa sopravvivenza e, per questo motivo, fanno ciò che possono – anche pagare somme esorbitanti di denaro ai distributori privati – per accaparrarsi la fetta maggiore.
“Betlemme e Beit Sahour ricevono molta più acqua di noi – dice Akram, un giovane cha abita nel campo rifugiati di Aida – D’estate normalmente riceviamo l’acqua per non più di 12 ore al giorno”.
Wisam Hasanat, membro dello staff dell’Ibdaa Centre nel campo di rifugiati di Dheisheh, menziona un tragico caso accaduto nell’estate del 2009. “L’acqua che perveniva alle nostre case era piena di feci e urina – dice Hasanat – e questo a causa di un sistema di condutture risalente al 1972, che era stato costruito accanto alle fognature e attraverso le cui crepe filtrava l’acqua di scarico.”
Solamente quando i residenti del campo cominciarono ad accusare malesseri dovuti all’acqua sporca e puzzolente e scatenarono animate proteste, le autorità palestinesi e l’UNRWA decisero di riunire una commissione per affrontare la crisi.
“Alla fine abbiamo ottenuto un nuovo condotto – continua Hasanat – ma a tutt’oggi non si è presentata nessuna commissione a stimare la qualità dell’acqua che entra nelle nostre case”. Il campo dipende dall’acqua venduta dai rivenditori privati, che solo raramente la filtrano prima di distribuirla, e per questo motivo il problema è ben lontano dall’essere risolto.
Alla fine di gennaio avrà inizio un progetto di riabilitazione dell’intero sistema di distribuzione dell’acqua nell’area di Betlemme e dintorni con la supervisione del Programma Francese per lo Sviluppo. Secondo il piano stabilito si costituiranno quattro nuovi bacini artificiali e alcune stazioni di pompaggio dell’acqua.
“Anche se il nuovo sistema dovesse funzionare perfettamente – dice il Dottor Lagare – gli israeliani non ci garantiranno mai il quantitativo d’acqua del quale abbiamo bisogno, e che ci spetta di diritto, per vivere degnamente”.
“Se, secondo la definizione, uno stato è ‘perseguibile’ solo se garantisce sicurezza, confini e risorse – aggiunge – senz’acqua, la principale risorsa, la Palestina deve abbandonare qualsiasi velleità di diventarlo mai”
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