Da alcuni giorni sul programma del Forum sulla Cooperazione che si terrà il 1 e il 2 ottobre a Milano campeggiano gli sponsor dell’iniziativa, attesa da molti come uno spartiacque per la rinascita dell’aiuto allo sviluppo italiano. Tre società sono note a tutti: Microsoft, Banca Intesa e soprattutto Eni.
Di fronte alla recessione imperante, alla spending review e al già azzerato aiuto allo sviluppo italiano, per molti degli organizzatori è stato scontato il ragionamento che i soldi non ci sono e va bene chiederli a chiunque, soprattutto a chi li ha.
Per altro un tema centrale dell’agenda dei lavori è proprio lo sdoganamento definitivo del settore privato for profit come principale motore dello sviluppo, al punto che, come ha postulato la Commissione europea, si devono considerare nuove modalità non solo per far finanziare al privato progetti di sviluppo, ma addirittura per concedergli prestiti pubblici agevolati per la loro attuazione, così come si fa con i paesi più impoveriti.
È notevole che il cane a sei zampe campeggi sulla iniziativa più importante da anni per discutere di cooperazione e solidarietà internazionale, ed è anomalo al riguardo il silenzio del mondo tradizionale della cooperazione e delle Ong, assetato di risorse dopo anni di crisi.
Per chi vive nel Delta del Niger, così come in tanti altri luoghi del pianeta devastati a livello ambientale e sociale dallo sfruttamento del petrolio da parte delle multinazionali, i termini Eni e Agip non sono sinonimo di aiuto, sviluppo o cooperazione, come dimostrato anche dalla campagna in corso di Amnesty International rivolta proprio a Eni. La scelta dell’Eni come sponsor rischia di togliere ogni credibilità al già discutibile esercizio del forum, interamente mirato a consacrare la privatizzazione ineluttabile della cooperazione.
Qualcuno dirà che non ci si poteva aspettare altro dal “governo delle banche”. Infatti tra gli sponsor c’è anche Intesa San Paolo, che vanta nell’esecutivo voluto da Monti ben tre ex membri del suo consiglio di amministrazione, tra i quali l’ex amministratore delegato Corrado Passera.
Ma la questione è più complessa e profonda e va presa di petto. A chi obietterà che questa critica al privato come attore di sviluppo sa di vecchia ideologia non al passo con i tempi della globalizzazione finanziarizzata, e che magari la stessa Eni è certificata dal Dow Jones Sustainability Index e da altre agenzie di rating come azienda virtuosa e sostenibile, forse è necessario controbattere con una domanda. Non è invece più ideologico e dogmatico ritenere che la “fabbrica dello sviluppo e degli aiuti” – palesemente fallimentare negli ultimi decenni nel combattere la povertà nel mondo – debba andare avanti ad ogni costo, al punto da essere messa nelle mani del privato, se non addirittura dei mercati finanziari?
Inoltre, è davvero solo una questione di soldi che non ci sono, quando la crisi sistemica che viviamo è proprio dovuta ai troppi capitali accumulati “assetati” di profitti sempre più grandi che volteggiano sul 99% della popolazione del pianeta, inclusi i più poveri? La stessa Eni opera sistematicamente, come quasi tutte le multinazionali, con società che hanno sede in Paesi considerati paradisi fiscali, presumibilmente -e legalmente si dirà- per ridurre le tasse da pagare, e vi sono diversi casi in cui la società è stata coinvolta in scandali di corruzione e proprio in Nigeria è stata condannata al riguardo per il progetto di Bonny Island.
Insomma, le risorse per i poveri ci sarebbero, ma vanno mobilitate in primis localmente e poi internazionalmente, ponendo vincoli alla follia dei mercati globali. E soprattutto ci pare necessario che siano i poveri a decidere che tipo di sviluppo vogliono e come fare per finanziarlo.
Analogamente alla privatizzazione della cooperazione, in maniera dogmatica le conseguenze negative su popolazione e ambiente associate alle operazioni delle multinazionali del petrolio sono considerate ineluttabili, “un danno collaterale” dello sviluppo, sanabile magari con più aiuti. Ma la realtà sul campo è sconcertante.
L’Alta corte federale di Benin City in Nigeria dal 2005 considera la pratica del gas flaring non solo illegale, ma anche una violazione del diritto alla vita sancito nella Costituzione del paese. Ciononostante, a tutt’oggi si continua a bruciare gas associati in torcia, come documentato da missioni indipendenti della società civile. I danni gravissimi all’ambiente e alla salute di chi vive nel Delta del Niger continuano. I nuovi piani di sfruttamento del gas su larga scala non faranno che acuire i problemi nella regione.
L’Eni non è una società qualunque: il 30 per cento della proprietà è ancora in mani pubbliche, e per questo ogni anno consegna un lauto dividendo al ministero dell’Economia. Forse a breve dovremmo conteggiare la partecipazione statale nell’Eni come aiuto allo sviluppo? Se il Ministro Riccardi volesse promuovere davvero un’azione di sviluppo a costo zero per i contribuenti italiani e senza passerelle inutili, potrebbe indurre la società che controlla come principale azionista di minoranza a prestare maggiore attenzione agli impatti sociali e ambientali dei propri progetti.
I poveri apprezzerebbero un’azione di verità e giustizia da chi dice credere in quei principi. Anche la società civile potrebbe fare azioni di sviluppo a costo zero, aprendo una seria battaglia globale per rendere illegali le pratiche di elusione fiscale delle multinazionali.
Queste sono solo alcune delle ragioni per non esserci al party dello sviluppo di Milano.
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