“Le eroiche donne cochabambine il 27 maggio del 1812 presero le armi per difendere la città affrontando l'esercitò realista, cadendo nel nome della libertà!”. Plaza 14 de Septiembre, Cochabamba, Bolivia. Domenica, lo zòcalo è vestito a festa: il giardino ornato di alberi che è il cuore della città, la piazza coloniale circondata dai palazzi municipali, dalla prefettura, dalla sede dello storico sindacato dei metalmeccanici, sembra un plastico ottocentesco. E anche un Luna Park. Ci sono i soldati che sfilano con le baionette e i tamburi. Ci sono i palloncini e lo zucchero filato. C'è il vescovo, il sindaco, i curiosi che si accalcano a centinaia. Immagine inconsueta della Plaza, che di solito desta un certo rispetto: ce la ricordiamo che esplodeva di migliaia di persone quando Oscar Olivera, leader della Guerra dell'Acqua del 2000, gridava “Compagni abbiamo vinto, l'acqua è nostra!”.
Domenica scorsa invece era el Dia de la Madre: lontana dalla nostra Festa della Mamma, è la celebrazione di un atto storico, quel 27 maggio di 200 anni fa che vide le donne povere di Cochabamba scendere nelle strade contro l'esercito del re di Spagna. Non era rimasta un solo uomo nella città. Erano morti o nelle fronde indipendentiste. Allora las mujeres si organizzarono. Le guidava una donna cieca, Manuela Gandarillas. Cochabamba le ricorda. Palloncini e bandiere. Ma sono tante ancora oggi le eroine di Cochabamba.
“Le donne boliviane si prendono le loro responsabilità. Lo hanno dimostrato nei momenti di conflitto, nelle guerre, negli scontri sociali quando gli uomini non c'erano. Ma non arrivano mai a coprire un ruolo di rilievo. Vengono obbligate a scegliere: o famiglia, o politica”. Mery Ruth Arancibia è la pedagoga del corso di alfabetizzazione e liderazgo (diventare leaders, capaci di autorganizzarsi) che appoggiamo e al quale partecipiamo, nel quartiere di Serena Calicantus. Un posto che lascia poco alla fantasia: fa un freddo cane, fra case di mattoni e latta che sembrano buttate alla rinfusa su questa collina a sud della città. Non c'è niente: nè servizi basici – fogne, ambulatori – nè acqua nel sottosuolo perchè è una pietraia e ci si cava solo acqua salata. Il governo ha “delocalizzato” qui alcune centinaia di famiglie, dodici anni fa. Sono emigranti mineros, minatori. La violenza domestica è un ulteriore problema per le donne di qui, senza lavoro nè alfabetizzazione. Loro lottano ogni giorno per la sopravvivenza. Eppure la sera, eccole qua al corso. Cinquanta, settanta..Arrivano con i bambini sulle spalle avvolti nelle coperte colorate, imparano a ricamare, a fare fiori da vendere al mercato, a leggere. A conoscere le leggi. “Facciamo un esercizio a gruppi questa sera per capire di quali strumenti abbiamo bisogno per analizzare i nostri diritti”, spiega Elizabeth, l'altra “profesora”. Attorno a cinque tavoli, le donne scrivono altrettanti cartelloni. Ogni gruppo si dà un nome. Ci sono le Gaviotas, le gabbianelle, perchè vogliono essere libere, ma vogliono anche un sistema fognario. Ci sono le Tikas Wayra, che in quechua significa fiori nel vento: vogliono acqua potabile. Las Margaritas vorrebbero giardini. Ma anche che i pozzi settici smettano di inondarsi ogni volta che piove, rendendo il terreno un letamaio. “La nostra Costituzione dice che l'acqua è un diritto. Ma come è possibile applicare questo principio se non abbiamo nemmeno le fogne?”, si chiedono. L'esercizio ha dimostrato come ancora una volta ogni donna abbia pensato prima alla propria famiglia che a sé. Nonostante Cochabamba abbia il triste record di casi di violenza domestica (denunciati), le donne chiedono acqua. Che è sopravvivenza, speranza, futuro. “Il rapporto fra donne ed acqua è incredibile: nella zone periferiche di Cochabamba, dove il 90% della gente non ha accesso all'acqua potabile, sono le donne ad essere in prima linea per lottare per questo diritto – racconta Mary Ruth - ma il loro ruolo all'interno delle comunità non trova riconoscimento. Vige una cultura machista, partiarcale, che nelle campagne è più acuta: marimachos, vengono definite le donne che si mettono in politica o che hanno voce: donna mezza maschio, senza femminilità”. Eppure la cultura aymara, il popolo che ancora oggi vive negli Altipiani andini, era basata sulla dualità fra uomo e donna. La Nuova Costituzione di Stato del 2009 sta cercando di fare dei passi avanti. Ha introdotto le pur discusse quote rosa. Ha finalmente concesso il diritto di proprietà terriera alle donne. “Ma non esistono ancora riforme strutturali. Ci sono progetti di educazione, di salute, ambiti dove si suppone la donna dovrebbe essere referente. Ma non è così”, racconta Doña Susana, voce storica della radio indigena Lachiwana. Eppure, di “eroine di Cochabamba” ne vediamo ogni giorno. Le donne di “Serena Calicantus” ne sono un esempio. Anche per partecipare al corso hanno dovuto lottare: i mariti non le lasciavano venire, le minacciavano o ricattavano. Ma anche questa sera torneranno a casa, prepareranno cene e laveranno vestiti con la poca acqua a disposizione, quella costosa e putrida che arriva con i camiones e che loro devono andare a recuperare con bidoni e taniche: soliti miracoli di resistenza e fantasia. C'era una ministra, una donna quechua saggia e simpatica. Aveva ricoperto il ruolo di Guardiasigilli nel primo governo Morales. Qui in Bolivia si dice che c'è poco di peggio che essere “donna, indigena e povera”, e Casimira era tutte e tre le cose. Un giornalista sprezzante le aveva chiesto che avrebbe potuto sapere lei, di Giustizia. E lei aveva risposto: “Non so niente di giustizia. Ma so tutto di ingiustizia”.