Documento senza titolo
“Ci rivolgiamo a Voi con profonda  preoccupazione per gli eventi della Bolivia…perchè il governo statunitense,  secondo quanto ammesso, sta appoggiando i gruppi oppositori che in Bolivia sono  coinvolti nei recenti fatti di violenza e morte …” . Inizia così la lettera  indirizzata alla Segretaria di Stato statunitense Condoleeza Rice e all’ex  ambasciatore USA in Bolivia Philip Goldberg. La lettera è firmata da decine di  giornalisti, intellettuali, docenti ed attivisti statunitensi, fra i quali  Naomi Klein, e si riferisce al cosiddetto “masacre del Porvenir” dell’11  settembre scorso, in Bolivia. E’ decisamente un segno dei tempi, una lettera  aperta al governo degli Stati Uniti contro le ingerenze nell’ennesimo tentativo  di golpe latinoamericano. Che pretende spiegazioni sui milioni di dollari  –almeno 89 – che attraverso agenzie statunitensi come USAID e NED sono finiti  nelle casse delle prefetture secessioniste della Bolivia.
  E’ un fatto incontestabile la longa manu statunitense nel terremoto  secessionista e della Bolivia. Per la confederazione di stati nordamericani,  abituata a fare il bello e il cattivo tempo nel proprio “patio trasero” - il continente latinoamericano - scomodarsi tanto  – ma anche in maniera tanto scomposta – per destabilizzare il governo democratico  del Paese più povero e con 8 milioni di abitanti, è stata una priorità. Perché?
 L’11  settembre boliviano è una colonna di contadini del Pando, regione desolata  della Bolivia nordoccidentale, che marciano nella foresta; è un gruppo di  esaltati – che fanno però parte di un esercito paramilitare organizzato ed  ufficializzato, la Junion Juvenil, agli ordini del prefetto Leopoldo Fernandez-  con i mitra in mano che aprono il fuoco. E’ 15, venti, trenta, forse cento,  morti (alcuni dati ufficiali dicono 15 morti, 60 feriti, altrettanti dispersi).  Bambini inclusi. E’ una strage che la diplomazia statunitense, l’unica, non  condanna ufficialmente. 
  Il giorno dopo quello che è stato  definito “el masacre del Porvenir”, l’ambasciatore Philip Goldberg è “persona  non grata in Bolivia” e viene espulso. Non lo era mai stata, “persona grata”:  molti erano stati gli incidenti diplomatici con il Governo Morales. D’altronde  il curriculum di Goldberg parlava chiaro: dal Kossovo con furore, dove aveva  curato per conto USA l’indipendenza, alla Bolivia di Morales. Le analogie fra  la balcanizzazione slava e lo stesso tentativo in Bolivia,portato avanti dalle  regioni dell’Oriente del Paese, sono sempre state troppe. Tanto da meritare  all’ambasciatore USA, il nomignolo di GOLPberg. 
  Ma la Jugolslavia non è l’America Latina.  Il 12 settembre, all’indomani del massacro, l’appoggio alla Bolivia è unanime. In  un comunicato congiunto i governi del Brasile, del Cile, dell’Argentina e del  Venezuela, dicono: che “non riconosceremo nessun governo che pretenda di  sostituirsi a quello democratico eletto dai boliviani e confermato in un  referendum appena un mese fa con quasi il 70% dei voti”. Lula insiste: “il Brasile non tollererà, ripetiamo, non tollererà, nessuna  rottura dell’ordine democratico in Bolivia”. Chavez si lascia andare ad uno: “yanquis  di merda” che nessuno rimprovera. Il cammino democratico della Bolivia è  stato seguito quasi con affetto dagli stati  amici: la parabola del sindacalista cocalero con la faccia indigena e il  passato da pastore di lama è forte e deve essere sostenuta, assieme al  tentativo di riscatto del Paese più povero e saccheggiato del continente. Perché  la Bolivia è il corazon dell’America  Latina. E non è solo un’apostrofo poetico: è strategica, è nel centro del continente.  Ed è ricchissima di idrocarburi, di gas, e di petrolio. Che Evo Morales ha,  seppur blandamente, nazionalizzato. E ancora manca l’approvazione della Nuova  Costituzione di Stato, dove redistribuzione delle terre e autonomie di 37  nazioni indigene, campeggiano come bandiere in cima ad una collina. La Bolivia  è poi appoggiata dal diavolo in persona, dal Venezuela di Chavez – che sta  carteggiando felicemente con la Russia –   e da Cuba. Appoggia il nuovo governo paraguaiano di Lugo. E  all’Argentina e al Brasile è legata attraverso ricchi gasdotti. L’”asse del  male”, come Bush ha così pittorescamente definito la nuova serie di alleanze  latinoamericane dei governi di sinistra, è solido. E si è visto con la riunione  urgente dell’Unasur in Cile: senza la presenza statunitense, 9 capi di Stato  sudamericani hanno condannato qualsiasi tentativo di golpe civile. La OEA – Organizzazione  degli Stati Americani, una volta considerata un bastione statunitense - ha  visto diluire il proprio controllo al suo interno, tanto che nel 2005 è stato  eletto come segretario generale il cileno José Miguel Insulza, contro parere USA. Il comunismo risorge  vestito da indigenismo. Questo deve far fare sogni orribili a certe persone.  Che forse, dopo la debacle diplomatica per l’11 settembre boliviano, si stanno rendendo conto che  cominciano ad essere altri, i Paesi in lizza a sentinelle del mondo. Si  vedrà.Ma intanto, l’11 settembre del Porvenir, con tutti i suoi morti  innocenti, il suo dolore, la feroce ingiustizia razzista, non è stato un 11  aprile 2002, come in Venezuela. Ma  soprattutto, non è stato un 11 settembre del ’73.