L’ultima frontiera del ì Mercosur “produttivo” è lo sfruttamento delle risorse idriche. L’Integrazione ì Regionale passa per la moltiplicazione di dighe, porti ed industrie nel bacino ì del rio Uruguay, ad interesse delle grandi imprese del nord. Grandi progetti e ì conflitti binazionali sono all’ordine del giorno in una delle maggiori riserve ì d’acqua della terra.
Ha fatto il giro del mondo la notizia dell’impresa Botnia, di origine finlandese, che alla fine del 2007 ha inaugurato un’industria costruita sulla sponda ì orientale del Rio Uruguay. La fabbrica produrrà 1200 tonnellate di polpa di ì cellulosa all’anno, in territorio Uruguaiano, che saranno esportate in Finlandia ì per la produzione della carta grazie ad un investimento di oltre un miliardo di ì dollari, a cui si aggiungono sovvenzioni per la forestazione, una zona franca e ì garanzie da parte dello stato “ospite” in caso di fallimento. L’industria, ì approvata all’epoca del passato governo (di destra) del presidente Batlle, ì consuma quotidianamente 80.000 milioni di litri d’acqua, come una città di ì 400.000 abitanti. Oltre alla Botnia, esistono altri cinque progetti già annunciati. L’impresa spagnola Ence, la Stora Enso a capitale misto (Svezia e Finlandia), la portoghese Portucel, la Statunitense Iternational Paper e la giapponese Nippon Ppel.
Alle imprese “cellulosiche”, ì che hanno scatenato le ire del governo aragentino ed un movimento di protesta che da oltre un anno e mezzo blocca un ponte internazionale che unisce i due paesi “fratelli” si aggiunge la recente notizia che l’impresa Rio Tinto ì costruirà poco più a sud della fabbrica un porto per l’esportazione di Ferro estratto nel Mato Grosso Brasiliano e l’importazione di Carbone Minerale per il funzionamento di altre 16 imprese nello stato Carioca. Secondo Bart Wierson, il dirigente dei progetti dell’impresa Rio Tinto in Brasile “l’Uruguay possiede ottimi requisiti internazionali in termini di trasparenza, stabilità istituzionale e leggi che stimolano gli investimenti”. L’impresa, a capitale misto Inglese e Australiano, è in attesa dell’autorizzazione ambientale, mentre tra Argentina ed Uruguay si acutizza l’odio per l’ennesimo progetto che, secondo l’opinione di Buenos Aires, violerebbe ancora una volta lo statuto del Rio Uruguay, che prevede un processo di consulta tra i due paesi prima di iniziare qualsiasi opera sulle sponde del fiume internazionale.
L’Uruguay è anche lo scenario della produzione idroelettrica. Agli inizi di febbraio, Jorge Cappato, coordinatore nazionale della sezione argentina dell’ Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN), denunziava che, oltre agli sbarramenti di Salto Grande (condiviso da Argentina e Brasile) e di Itá, Machadinho, Passo Fundo e Barra Grande (in territorio Brasiliano), Brasilia ha tra le opere in progetto o già in costruzione altre 15 dighe nazionali e 3 binazionali, per un totale di oltre 20 sbarramenti, con notevoli conseguenze per l’idrologia e la portata del bacino, la diversità biologica, l’allontanamento di migliaia di famiglie dalle proprie abitazioni e l’inondazione di terre fertili in tutta la regione. Alcune delle opere in questione sono parte dell’Iniziativa per l’Integrazione della Regione Sud Americana (IIRSA), che ha l’obiettivo di promuovere lo “sviluppo” di trasporti, energia e telecomunicazioni nella regione attraverso grandi infrastrutture che avranno il loro sbocco sulle coste oceaniche, pronte a servire i ricchi mercati del nord.
Ma il consumo e la contaminazione delle risorse idriche passa anche per l’avanzamento delle monocolture. Oltre a soia, mais, riso ed altri cereali, da alcuni anni avanza in maniera preoccupante la presenza di alberi non autoctoni: “L’Uruguay, insieme all’Australia, si trova alla latitudine migliore del mondo per la coltivazione di Eucalipti” spiega Santiago Larguero, agronomo uruguaiano ed ambientalista “ed oggi, in un paese con una superficie di appena 17 milioni di ettari, ci ritroviamo con un milione di ettari di monocolture forestali di alberi non autoctoni che servono per alimentare l’industria del legno e della carta a servizio dei paesi del Nord”. I rischi principali sono per il lavoro precario, l’impatto sulla biodiversitá, l’alterazione del ciclo idrologico, l’impoverimento del suolo e la scomparsa della popolazione rurale per lasciare spazio al “deserto verde”.