Documento senza titolo
6 luglio 2008
Cochabamba, Bolivia
Scriviamo da un luogo molto importante per noi, donne e uomini del sindacato dei metalmeccanici di Cochabamba, il nostro antico edificio del sindacato in pieno centro di Cochabamba. Questo edificio non è solo il patrimonio ereditato dai vecchi operai che negli anni ’60 lo comprarono con i fondi comuni della Cassa Operaia della Previdenza Sociale, è stato in altri tempi un hotel dove alloggiava, ballava e si divertiva l’oligarchia cochabambina.
Questo edificio da 50 anni è diventato uno spazio da dove non solo hanno parlato importanti militanti, uomini e donne, lottatori e lottatrici, ma è anche uno spazio condiviso dalla gente della campagna e della città, uno spazio di autonomia, di liberazione, di dignità, di decisioni di lotta e azione collettiva per recuperare la nostra VOCE, e la capacità di indignarci e decidere.
Questo edificio è stato testimone dei piani del Che, secondo quanto ci raccontano i vecchi operai comunisti, dei pochi che rimangono del ’66, quando questo semplice uomo è venuto in Bolivia a organizzare la Guerriglia.
Questo edificio è stato anche scenario di prigionia, di uffici convertiti in celle, delle pene sofferte da decine di militanti, uomini e donne che sono stati torturati e torturate, violentate, umiliate… ancora possiamo ascoltare il pianto di fratelli e sorelle testimoni di quanto è successo durante la dittatura, quando i paramilitari hanno occupato questo edificio e hanno proscritto i nostri sindacati. In altre parole questo edificio è erede di queste lotte e azioni collettive, orizzontali, allegre e degne degli uomini e le donne di questa valle.
È qui, in questi giorni freddi di giugno e luglio, che un pugno di operai metalmeccanici stanno facendo lo sciopero della fame. Dirigenti giovani come Mario Quilo e Mario Céspedez; saggi ex dirigenti come Max Fuentes, José Santa Cruz e José Chalar; e i nostri compagni dirigenti della Confederazione Generale dei Lavoratori Metalmeccanici, Hernán Vásquez, Jaime Siñani e Rene Albino, che sono arrivati da La Paz per appoggiarci, come facciamo sempre, gli uni con gli altri, questa volta per gli operai della Manaco, una fabbrica di calzature sussidiaria della multinazionale Checa “Bata”.
Stiamo qui appoggiando la lotta per il diritto al lavoro e alla vita di Alessandro Saravia, un anziano operaio di 56 anni, 28 dei quali sono stati spesi sotto l’intesa disciplina del capitale in questa fabbrica che oggi conta quasi 700 lavoratori.
Alessandro semplice operaio del calzaturificio, legato al lavoro rurale, vive insieme alla sua sposa, seria e amabile, di nome Petrona, e ai suoi figli, uno dei quali è motivo di grandi preoccupazioni, perché Cesare, così si chiama, di 18 anni, sta partendo per il servizio militare.
Queste riflessioni sono il prodotto del nostro incontro – con alcuni ci siamo conosciuti solo adesso – e insieme stiamo condividendo la preoccupazione quotidiana di Alejandro, che si sveglia alle cinque del mattino perché l’abitudine quotidiana ha ormai fissato le lancette del suo orologio biologico all’alba di ogni giorno per arrivare in tempo in fabbrica.
Questi sei giorni di sciopero ci hanno permesso di ri-creare, tra coloro che lavorano e lavoravano nella Manaco, queste storie cariche di dignità, di solidarietà e reciprocità, di angustia e allegria, di lotte comuni e incontri tra gli operai e le operaie durante questi ultimi 30 anni. Cominciamo a ricordare la vicinanza dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, ma anche le persecuzioni, la clandestinità e l’assassinio dei nostri compagni di lotta. Da qui sono nate queste righe, da questa ri-creazione della nostra memoria storica, che meravigliosamente resta fresca e intatta, meraviglia e benedizione di questo sciopero, come dice Max.
Se qualcosa non ha potuto fare il neoliberalismo è distruggere il movimento dei Metalmeccanici, degli operai industriali delle città. Malgrado le difficoltà di questi 25 anni di lotta, siamo riusciti a mantenere la nostra cultura e i nostri valori quasi occulti nel nostro cuore, nelle nostre vene, nelle nostre case, nelle nostri sedi sindacali.
Il movimento dei minatori vive un momento di ri-strutturazione, organica, culturale e ideologica; il movimento edile resta isolato negli angoli dei municipi; lo stesso vale per i sindacati delle ferrovie e dei grafici; il proletariato resiste praticamente decimato, malgrado gli impiegati dei settori dell’acqua, luce, gas e telefono, tentano di ri-strutturarsi anche se in una prospettiva strettamente corporativa.
Il movimento Metalmeccanico e manifatturiero, quasi per il cento per cento resta sottomesso al capitale delle grandi multinazionali come Vitro, Coca Cola, Pepsi, Bata, Unilever e altre che hanno configurato uno scenario comune in ogni parte, con un proletariato giovane, tuttavia timoroso, ignorante dei suoi diritti, dove la cultura neoliberale ha penetrato in modo infame con l’individualismo e l’irriverenza. In altre parole ha eliminato la memoria storica degli operai, e i compagni e le compagne NON SANNO chi sono, hanno perso la loro identità.
Il caso di Manaco è la dimostrazione più chiara di questa situazione e questa è una lotta che viene crescendo dalle fabbriche. La mobilitazione dei sindacati che oggi hanno rialzato la testa è il risultato dell’unione di pochi vecchi operai che siamo rimasti in fabbrica e che siamo riusciti a resistere alla corruzione da parte dei padroni, agli attacchi violenti governativi, alle poltrone concesse dal governo, e ci manteniamo in lotta, grazie all’appoggio dei nostri compagni e al Foro sindacale che ancora continua ad esistere. Anche grazie a questa gioventù operaia che non è immune alla prepotenza dei padroni, allo sfruttamento, che vive in mezzo al terrore aziendale e, molte volte, senza nessuna protezione dei suoi dirigenti che – come nella Manaco – sono diventati servi incondizionati dei padroni. Lo scenario è quello di fabbriche con piccole concentrazioni di operai e operaie, dell’emergenza dei piccoli reparti dai 20 ai 60 lavoratori, creati con l’obiettivo di distruggere il potere operaio; ciò rende più difficile il lavoro per la ricostituzione del nostro movimento come corpo organizzato dei nostri fratelli e delle nostre sorelle della Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici di Cochabamba.
Per questo motivo il nostro è uno sciopero della fame di ex dirigenti e compagni pensionati, che cercano di recuperare quella cultura della solidarietà, della reciprocità, del rispetto, del vederci come uguali, della somma e della unità come uniche forme di azione e lotta per avanzare e trionfare, perchè i giovani operai e operaie delle fabbriche non potranno lottare da soli e avanzare nel recupero dei loro diritti. Dobbiamo essere tutti lì per ottenerlo, e noi, i vecchi operai, non possiamo vedere il nostro sogno di costruire una società più giusta senza la completa partecipazione dei nostri fratelli e delle nostre sorelle.
Per questo motivo, gli operai e le operaie di ieri e di oggi dobbiamo sentirci orgogliosi e orgogliose della nostra identità di essere i produttori dei beni materiali che noi e gli altri necessitano per vivere adesso: siamo coloro che rendono possibile con la forza delle nostre braccia, delle nostre menti e dei nostri cuori, la trasformazione di ciò che generosamente ci regala la Pachamama (Madre Terra) per creare il benessere.
Siamo riusciti a resistere, siamo riusciti a sopravvivere come corpo organizzato, siamo riusciti a non farci togliere totalmente i nostri diritti, abbiamo passato il tunnel scuro e lungo di questi anni di invisibilità e ora siamo disposti, e lo stiamo ottenendo, a renderci visibili un’altra volta indignandoci per le condizioni nelle quali stiamo lavorando.
Lo facciamo così anche per l’indifferenza di questo governo, che per più di due anni ci ha ignorato. Nonostante che gli operai abbiano lottato con grande forza per questo governo, per porlo lì dove adesso sta, questo governo si è dimenticato di noi: per questo motivo le nostre lotte nelle strade dall’aprile di quest’anno sono per il PANE, il LAVORO, la CASA, perchè non ci ascoltano, non ci vedono, non ci sentono; perché hanno smesso di vivere come noi, gente semplice e lavoratrice che vive del proprio lavoro e non del lavoro altrui.
Per questo motivo dobbiamo sentirci orgogliosi e orgogliose, perché con le nostre lotte stiamo portando avanti il cosiddetto processo di cambiamento, perché questo processo non sia solamente una consegna, una delega ad altri, ma una realtà. Poiché l’unica forma di cambiare le cose, di cambiare le nostre condizioni di lavoro, la nostra vita, è l’unità, l’organizzazione, la mobilitazione, il recupero della nostra memoria, dei nostri valori, di ricordarci dei nostri padri e dei nostri nonni, delle nostre madri e delle nostre nonne, dei nostri fratelli e sorelle maggiori, per domandar loro, in faccia, se quello che stiamo facendo oggi è giusto e quanto ancora ci manca, perché l’eredità venga recuperata e aumentata per il benessere dei nostri figli e dei nostri nipoti, cioè, perchè la vita dignitosa continui e continui, per sempre.
Per questo motivo questo sciopero della fame – che è il prolungamento della costante e permanente fame che soffrono migliaia di famiglie operaie a Cochabamba e in Bolivia -, non solo reclama la restituzione di Alejandro alla propria fonte di vita, ma il ritorno della dignità nelle fabbriche del paese, dove il capitale pretende di continuare a regnare, ad addomesticare, a colpire, e dove la paura sembra essere una male ereditario. È per questo che abbiamo detto BASTA!, come lo stiamo facendo dal 200 ad oggi nelle differenti lotte per la nostra emancipazione come uomini, donne, bambini e bambine, anziani e anziane, tutti figli e figlie di questa terra.
Cochabamba, giugno-luglio del 2008
Oscar Olivera è operaio della Manaco da 30 anni e dirigente metalmeccanico a Cochabamba