Non c´è isola del Mediterraneo, come la Sicilia, che non abbia problemi di siccità. Questo, fino a qualche anno fa, era uno degli argomenti che servivano per giustificare i rubinetti a secco di Palermo e della Sicilia. Ora, non senza una certa sorpresa di noi utenti palermitani, l´azienda acquedotto afferma: "Palermo, città d´acqua". È questo, infatti, il titolo di un volume edito dall´Amap, con un interessante corredo fotografico e una rievocazione storica di Maria Di Piazza. Il libro descrive le varie fonti di approvvigionamento idrico di Palermo, spiegando le tecniche di adduzione e distribuzione nelle diverse epoche, seguendo il corso di fiumi e torrenti. La parte certamente più interessante è quella che descrive l´evoluzione tecnica della distribuzione, fin dal 1894, quando il sindaco Giulio Benso duca della Verdura bandì un concorso per la realizzazione dell´acquedotto di Scillato.
Dopo aver penato tanto per la mancanza d´acqua anche in anni recenti, è sorprendente leggere - secondo quanto correttamente scrive Maria Di Piazza - come «Palermo possa essere definita a tutti gli effetti una "città d´acqua"; la ricchezza e la varietà delle sorgenti, dei fiumi ipogei, delle costruzioni che, nel tempo, sono state realizzate per trarre il massimo profitto da questa abbondanza di acqua, rendono Palermo una città unica».
L´iniziativa editoriale, voluta dal presidente dell´Amap, Bruno La Menza, comprende anche uno speciale dvd destinato agli studenti delle elementari e delle superiori, «perché l´acqua che scorre dal rubinetto è l´ultimo atto di una catena che parte da lontano, anni e chilometri addietro, che in pochi conoscono».
Quello di cui il libro non parla sono le drammatiche vicende dovute alla carenza idrica e alle inefficienze dell´azienda acquedotto, che hanno caratterizzato quarant´anni di vita palermitana, dai primi anni Sessanta al Duemila. Ripercorriamo allora alcune tappe di questa "epopea della sete", che ebbe inizio intorno al 1960, quando la storica risorsa delle sorgenti di Scillato non bastò più per una città in caotica espansione.
Il 1956 vede l´acquedotto passare in mano pubblica. Incaricato dal Comune di gestire il passaggio dal privato al pubblico è Vito Ciancimino, che decide anche le nomine dei primi dirigenti, le nuove assunzioni e i primi meccanismi di controllo. L´Amap diventerà subito, e lo resterà fino al 1983, un feudo esclusivo di Ciancimino, che nel ´77 farà pure nominare presidente un suo parente, Vincenzo Zanghì. E Zanghì sarà un presidente molto silenzioso, farà parlare di sé pochissime volte: una quando, appena insediato, decide che l´ascensore della sede di via Volturno è riservato solo a lui (impiegati ed utenti salgano a piedi); l´altra quando, insieme ai vecchi boss Michele e Salvatore Greco, è coinvolto per peculato e ricettazione nel processo ai "signori dell´acqua" istruito dai magistrati Di Lello e Conte, che però si conclude con l´assoluzione degli imputati. Giuseppe Di Lello nel ´79 aveva scritto che «Palermo è forse l´unica città d´Italia che sta liquidando la sua falda, che non ha un serio censimento dei suoi pozzi, che non li ha iscritti nell´elenco delle acque pubbliche, che non li controlla, che li compra se sono salmastri, che non li concede per usi pubblici, ma che paga i privati per sfruttarne l´acqua».
Quella dei pozzi privati, spesso di proprietà mafiosa, e della commercializzazione dell´acqua, è una questione che si trascina per decenni, fin quando, nel 1983, l´Alto commissario antimafia Emanuele De Francesco comincia a requisirli.
Ma, come si diceva, è dai primi degli anni Sessanta che la città comincia a soffrire della carenza idrica. La situazione palermitana di quegli anni la sintetizza bene Giuliana Saladino in un articolo del 1978 su "Rinascita": «Malcostume, marasma, inefficienza sono parole oltre che logore, deboli a rendere l´idea. Né sono le parole che il palermitano medio oggi ha in testa, dopo essere stato abilmente dirottato sul sole: a scrutare le nuvole anziché la composizione della giunta comunale, a prendersela col clima anziché con l´Acquedotto, feudo di Ciancimino, a protestare contro il cielo sereno anziché contro la Dc che da trent´anni governa la città. Lo stesso palermitano d´oggi, senza scomodare gli arabi e le cinquecento fontane, senza scomodare gli zampilli e i giochi d´acqua settecenteschi, se ha una certa età annovera tra i suoi ricordi il gusto e quasi il vanto dell´acqua di Scillato, una limpida delizia che fluiva - per le classi agiate - 24 ore su 24 e appannava i bicchieri tanto era fresca».
In questo bailamme idrico, un ulteriore disagio per gli utenti arrivò nel 1976 dal Comitato provinciale prezzi, su disposizione del Governo centrale. Fu un provvedimento talmente surreale che fu presto revocato, e che molti forse non ricordano più. In ogni casa, cioè, pervenne una scheda perforata che l´utente doveva restituire all´Azienda con la previsione del proprio consumo di acqua. Questo "totometrocubo" - concepito per ripianare il deficit dell´Azienda - si risolveva in un gioco d´azzardo, basato sulla fortuna: io dichiaro che consumerò, per esempio, 100 metri cubi al quadrimestre; se ne consumerò meno, pagherò sempre per 100 metri cubi; se ne consumerò di più, mi scatterà una tariffa punitiva, molto più alta.
Gli anni Ottanta vedono acuirsi il problema dell´approvvigionamento idrico. L´Oreto non era più utilizzabile perché la sua acqua superava i limiti di inquinamento consentiti dalla legge Merli. La diga di Garcia, a Roccamena, ottenuta dopo le mobilitazioni di massa e i digiuni di Danilo Dolci, era completata ma ancora non collaudata e l´acqua veniva scaricata e dispersa. I lavori della diga Rosamarina, sotto Caccamo, erano sospesi. L´invaso Poma, sullo Jato, mancava dei necessari allacciamenti. Tutte opere, appaltate dalla Regione e dalla Cassa per il Mezzogiorno, che avrebbero dovuto risolvere ogni problema idrico, ma che non venivano mai portate a termine, con una impressionante girandola di miliardi di lire. L´acqua in città veniva erogata solo per qualche ora e non tutti i giorni. Ogni casa si muniva di motori sempre più potenti anche per succhiare l´acqua del vicino e conservarla in serbatoi sempre più fitti, prima in eternit e poi in plastica blu.
Nell´86 l´emergenza acqua della città viene posta all´attenzione del ministro per la Protezione civile, Giuseppe Zamberletti, che arriva a Palermo conferendo poteri eccezionali al sindaco Orlando e promettendo opere di emergenza, come una "condotta volante" di 10 chilometri, definita dai tecnici assolutamente inutile. Nell´agosto dell´89 i direttori delle scuole di Palermo dichiarano che non potranno avviare l´anno scolastico perché gli istituti sono a secco. Dei grandi serbatoi, allora, verranno installati per strada nei pressi delle scuole: orribili silos cui affluisce la gente assetata, la cui immagine farà il giro del mondo, e che verranno rimossi dopo tre anni.
Un altro fenomeno si verifica alla fine degli anni Ottanta, quello dei "cercatori d´acqua". E non in senso metaforico. Perché i palermitani avviliti dalla siccità l´acqua la cercavano realmente. Come? Scavando pozzi ovunque. Anche con l´aiuto di qualche rabdomante. Il fenomeno era diffusissimo, chiunque scavava pozzi dovunque, anche all´interno dei condomini, anche negli scantinati.
Insomma, in queste condizioni, fra pioggia e siccità, si arrivò fino ai primi anni del 2000. L´emergenza toccò l´apice nel 2001 con l´esaurimento dei tre grandi bacini artificiali dello Scanzano, del Poma e di Piana degli Albanesi, nonostante la preghiera per far piovere recitata da Totò Cuffaro.
Ma intanto, anche se con enormi ritardi e spreco di soldi, tante opere sono state portate a termine. Si è finalmente realizzata la canalizzazione della diga Rosamarina. Si sono installate tubazioni per 400 chilometri. Si sono realizzate in città sei nuove sottoreti. Le vecchie tubazioni in ghisa sono state sostituite da condotte in polietilene. La dispersione delle acque si è ridotta della metà. E un più razionale utilizzo delle numerose risorse hanno consentito negli ultimi tre anni di far dimenticare alla città le pene sofferte. Speriamo.
23 luglio 2008
da Repubblica.it