È un onore e un’emozione essere qui in un mondo “altro”, un mondo strano, di gente rara, di artisti. Quando ho incominciato a pensare a cosa avrei potuto dire a degli artisti sull’arte, mi sono ricordato che alcuni mesi fa qualcuno mi ha descritto come il poeta del movimento “altermundista”. Non so perché lo abbia fatto, però mi sono compiaciuto enormemente, anche se sapevo che lui lo intendeva come un insulto o un discredito. Lo intendeva come discredito perché stava dicendo che la teoria rivoluzionaria non deve essere confusa con la poesia. La poesia è pericolosa perché appartiene a un mondo bello ma irreale, mentre la teoria rivoluzionaria appartiene al mondo reale della lotta dura. In questo mondo reale di lotta, bisogna combattere il brutto con il brutto, le armi con le armi, la brutalità con la brutalità.
Io non sono d’accordo. Al contrario penso che la teoria e la pratica rivoluzionaria debbano essere poetiche o artistiche per essere rivoluzionarie, e anche che l’arte debba essere rivoluzionaria per essere arte.
Perdonatemi se parlo di rivoluzione. So che è una parola passata di moda. Se non altro parto dal presupposto che tutti sappiamo che il capitalismo è una catastrofe per l’umanità, e che se non sapremo disfarcene, se non riusciremo a cambiare il mondo in modo radicale, è assai probabile che agli esseri umani non resteranno ancora molti anni di vita. Per questo parlo di rivoluzione.
In un famoso discorso, Adorno disse che dopo Auschwitz non sarebbe stato più possibile scrivere poesia. Non dobbiamo tornare indietro di sessanta anni a Auschwitz per capire cosa intendesse. Abbiamo orrori sufficienti a portata di mano, in particolare qui in Colombia , in America Latina, nel mondo di oggi (Abu Ghraib, Guantànamo). In questo mondo pensare di creare qualcosa di bello sembra una terribile mancanza di sensibilità, quasi una burla per quanti in questo momento sono torturati, brutalizzati, violati, assassinati.
Come possiamo scrivere poesia, dipingere quadri, o dare conferenze quando sappiamo quello che sta succedendo intorno a noi? E quindi? Il brutto contro il brutto, la violenza contro la violenza, il potere contro il potere, tutto questo non significa nessuna rivoluzione. Rivoluzione, la trasformazione radicale del mondo non può essere simmetrica: se lo è, non vi è nessuna trasformazione, semplicemente la riproduzione dello “stesso” con altre “facce”. L’asimmetria è la chiave del pensiero e della pratica rivoluzionaria. Se stiamo lottando per creare una “cosa altra” allora la nostra lotta deve essere una “cosa altra”.
L’asimmetria è centrale perché stiamo lottando non contro un gruppo di persone, ma contro una forma di “fare”, una forma di organizzare il mondo. Il capitale è una relazione sociale, una forma in cui le persone si relazionano le une alle altre. Il capitale è il nemico, però questo significa che il nemico è una certa forma di relazioni sociali, una forma di organizzazione basata sulla repressione della nostra determinazione, del nostro proprio fare, nella oggettivazione del soggetto, nello sfruttamento. La nostra lotta per un “mondo altro” deve significare che stiamo contrapponendo altre relazioni sociali a quelle che stiamo combattendo. Se lottiamo simmetricamente, se accettiamo i metodi e le forme di organizzazione del nemico nella nostra lotta, allora l’unica cosa che stiamo facendo è riprodurre il capitale all’interno stesso della nostra opposizione a lui. Se lottiamo sul terreno del capitale, perdiamo anche se vinciamo.
Però cos’è questa asimmetria, questo “altro” che opponiamo al capitale?
In primo luogo, l’asimmetria significa negazione, negazione del capitale in tutte le sue forme. No, non lo accettiamo. No, non accettiamo che il mondo debba essere diretto dal profitto. No, ci rifiutiamo di subordinare le nostre vite al denaro. No, non lotteremo nel loro terreno. No, non faremo quello che sperano. No!
Il nostro No è un limite. Apre ad un mondo “altro” di un fare “altro”. No, non modelleremo le nostre vite secondo i requisiti del capitale, faremo quello che consideriamo necessario o desiderabile. Non andremo a lavorare sotto il comando del capitale, faremo “altro”. Contro un tipo di attività opporremo un’attività “altra” molto differente. Marx parla del contrasto tra questi tipi di attività come il “duplice aspetto del lavoro” e lo considera come “il perno intorno al quale gira la comprensione dell’economia politica - e quindi del capitalismo”. Parla dei due aspetti del lavoro come “lavoro astratto” da una lato, e “lavoro utile o concreto” dall’altro. Il lavoro astratto si riferisce all’astrazione che il mercato impone nel processo di creazione, astratto dalle sue caratteristiche particolari, tanto da rendere qualsiasi lavoro uguale ad altri. E’ lavoro alienato, lavoro che è alienato, astratto o separato dalla gente che lo fa. (Il concetto di lavoro astratto non ha niente a che vedere con il carattere materiale o immateriale del lavoro). Il lavoro utile o concreto si riferisce all’attività creativa che esiste in qualsiasi società e che è potenzialmente disalienato, libero dall’altrui determinazione. Per fare una distinzione un pò più chiara, parlerei di lavoro astratto da un lato e di fare creativo-utile dall’altro.
Il nostro “No” apre la porta a un mondo del fare creativo-utile, un mondo basato sul valore d’uso e non sul valore, un mondo che si spinge fino all’auto-determinazione.
Dove sta questo mondo?
Il marxismo ortodosso ci dice che esiste nel futuro, dopo la rivoluzione, anche se non è certo. Noi diciamo che esiste ora, adesso e ora, nelle crepe, nelle ombre, sempre ai bordi dell’impossibilità. Il suo nucleo è il fare creativo-utile, che si spinge fino all’autodeterminazione che esiste in, contro e oltre il lavoro astratto. Esiste nel lavoro astratto nell’attività diaria di tutti noi che vendiamo la nostra forza lavoro per sopravvivere “contro”, nella rivolta costante contro il lavoro astratto, da dentro il lavoro subordinato nel rifiuto di una relazione di lavoro subordinato, ed esiste oltre il lavoro astratto nelle intenzioni di milioni e milioni di persone in tutto il mondo a dedicare le loro vite (o quello che possono delle loro vite), individuali o collettive, a quello che considerano importante o desiderabile.
Se consideriamo il capitalismo come un sistema di comando, tuttavia queste disobbedienze, queste volontà di fare “altro”, questi “fare” che vanno contro e molto oltre il lavoro astratto si possono intendere come crepe del sistema. È gente che a livello individuale, collettivo sta dicendo: “No, non faremo quello che detta il denaro, noi in questo momento, in questo luogo, stiamo facendo quello che consideriamo necessario o desiderabile, e stiamo creando le relazioni sociali che desideriamo”. Queste crepe possono essere talmente piccole che nessuno le vede (la decisione di un pittore di dedicare la sua vita alla pittura, sia quelle che siano le conseguenze) o possono essere più grandi (la creazione di una scuola ribelle o questo colloquio per esempio), o possono essere enormi (come la rivolta zapatista, o il movimento piquetero, o la rivolta degli indigeni in Bolivia negli ultimi anni). Queste crepe sono sempre contraddittorie, e sempre esistono ai bordi dell’impossibilità, perché prendono una posizione contro il flusso dominante del mondo. Come sanno gli artisti forse meglio di tutti gli altri, è molto difficile vivere di pura passione, però questo è quello che fanno molti artisti: malgrado le difficoltà, antepongono il loro fare creativo al lavoro astratto, il valore d’uso al valore, si rifiutano di accettare la logica del mondo e tentano di vivere. Non tutti però molti lo fanno.
Malgrado si oppongano alla logica del mondo, queste crepe esistono ovunque, e più ci accorgiamo della loro presenza più ci rendiamo conto di quanto il mondo sia pieno di gente che rifiuta di conformarsi, che rifiuta di subordinare la sua vita alla logica del capitale. Parlare di crepe non è parlare di marginalità, non c’è niente di più quotidiano che stare contro il capitalismo. La rivoluzione è semplicemente il riconoscimento, la creazione, l’espansione e la moltiplicazione di queste crepe. Parlo di crepe e non di autonomie per enfatizzare tre punti: primo, che sono fratture, che hanno le loro radici nella negazione, che vanno contro il flusso dominante; secondo, che sono crepe in movimento – le crepe corrono, si espandono o si colmano; terzo, che un mondo di crepe è un mondo frammentato, un mondo di particolarità, in cui le crepe tendono a collegarsi ma non necessariamente tendono all’unità.
La nostra visione del mondo cambia quando entriamo in un “mondo altro”, un mondo basato non nel lavoro astratto ma nel fare utile-creativo, non nel valore ma nel valore d’uso. Questo è il mondo del comunismo, ma non è nel futuro (o non solamente), è un mondo che esiste qui e adesso, nelle crepe, come movimento. Sembra che il mondo capitalista sia unidimensionale, però non è così. Mai c’è un appiattimento totale delle alternative. Sempre esiste un’altra dimensione, una dimensione di resistenza, una dimensione “altra” – il mondo del comunismo che esiste nelle crepe, nelle ombre, un mondo sotterraneo.
Questo mondo invisibile è un mondo di dolore però non di soffrenze. E’ un mondo di dolore perché il mondo del lavoro astratto sta seduto sopra di lui, lo opprime e lo reprime. Il mondo del lavoro astratto è un mondo di denaro, di cose, di relazioni sociali reificate, della oggettivazione dei soggetti umani, oggettivazione fino all’assassinio, la violenza e la tortura. Il dolore sta al centro del nostro mondo, però non è soffrenza. La sofferenza implica una passività, un’accettazione dell’oggettivazione. Però il nostro mondo è il mondo del soggetto che rifiuta di accettare la propria oggettivazione, del creatore che lotta contro la negazione della sua creatività. Il nostro dolore non è dolore della sofferenza, ma il dolore di un grido di pena e rabbia, un dolore che ci muove all’azione.
Il nostro dolore è il dolore della dignità.
Nel nostro cuore c’era tanto dolore, tanta era la morte e la pena che straripavano, fratelli, in questo mondo che i nostri avi ci donarono per continuare a vivere e lottare. Tanto grande era il dolore e la pena che il cuore non li conteneva, e strariparono e si colmarono altri cuori di dolore e pena, e si colmarono i cuori dei più vecchi e saggi del nostro popolo, e si colmarono i cuori dei giovani uomini e donne, tutti valorosi, e si colmarono i cuori dei bambini, anche dei più piccoli, e si colmarono di pena e dolore i cuori degli animali e delle piante, si colmò il cuore delle pietre, e tutto il nostro mondo si colmò di pena e dolore, era intriso di pena e dolore il vento e il sole, e la terra. Tutto era pena e dolore, tutto era silenzio.
Tuttavia questo dolore che ci univa ci fece parlare, e riconoscemmo che nelle nostre parole c’era la verità, capimmo che non solo pena e dolore abitavano la nostra lingua, ci rendemmo conto che anche la speranza viveva nei nostri petti. Parlammo con noi stessi, ci guardammo dentro e ripercorremmo la nostra storia: vedemmo i nostri padri più anziani soffrire e lottare, vedemmo i nostri avi lottare, vedemmo i nostri padri con la furia nelle mani, vedemmo che non tutto ci era stato portato via, che avevamo ancora ciò che vale di più, quello che ci rendeva vivi, ciò che permetteva ai nostri passi di levarsi al di sopra di piante e animali, ciò che manteneva la pietra sotto i nostri piedi, vedemmo, fratelli, che era DIGNITÀ, tutto quello che avevamo, e vedemmo che era grande la vergogna di averla dimenticata, e vedemmo che bastava la DIGNITÀ per permettere agli uomini di tornare ad essere uomini, e tornò la dignità ad abitare i nostri cuori, e rinascemmo, e i morti, i nostri morti, videro che eravamo uomini nuovi, e ci chiamarono un’altra volta alla dignità, alla lotta. [Lettera del CCRI-EZLN, Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno dell’ Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, 01/02/1994]
Il nostro mondo non è solo un mondo di dolore ma anche di dignità. La dignità e la negazione dentro di noi, la negazione a sottometterci, la negazione ad essere un oggetto e quindi è più di una semplice negazione. Se rifiuto di essere un oggetto affermo che, malgrado tutto ciò che mi riduce al livello di un oggetto, sono un soggetto e creo. Creo “altramente”. La dignità è la affermazione del fare creativo contro l’astrazione del lavoro, qui e adesso, non nel futuro. La dignità è l’affermazione che non siamo vittime. Perché? Perchè malgrado tutto vive dentro di noi ciò che “permette ai nostri passi di levarsi sopra piante e animali”, tuttavia abbiamo qualcosa che va oltre, qualcosa che trasborda la nostra umiliazione e oggettivazione. C’è un mondo di differenza tra una politica di dignità e una politica della povera vittima. Le vittime sono le masse calpestate, che hanno bisogno di leaders e strutture gerarchiche. Il mondo delle vittime è il mondo del potere, un mondo che si fonde facilmente con la struttura dello Stato, è il mondo del partito, il mondo del monologo. Però se partiamo dalla dignità, se partiamo dal soggetto che esiste contro e oltre la sua oggettivazione, ci porta ad una politica assai distinta, un politca non di monologo ma di dialogo, di ascoltare invece di parlare, una politica non di partiti e strutture gerarchiche ma di assemblee e consigli, una politica che non cerca la conquista “del potere su” rappresentato dalla Stato, ma costruisce il “poter-fare” che viene dal basso. Una politica di fare, non di lamentarsi. Le vittime si lamentano, la dignità fa.
La dignità implica il riconoscimento che siamo internamente divisi, ognuno di noi. La dignità è un auto-antagonismo dentro di noi, un auto-antagonismo che è parte inevitabile di vivere in una società auto-antagonista. Sottomettiamo, però non lo facciamo. Lasciamo che ci trattino come oggetti, però dopo alziamo la testa e diciamo di no, che siamo soggetti creativi.
Fratturando il capitale, fratturiamo noi stessi. La dignità è un “es-tasi” dentro di noi, è un fermarsi contro e oltre noi, una proiezione oltre. Saremmo stati delle vittime se non avessimo trovato questa dignità “es-tatica” dentro di noi, che mantiene le pietre sotto i nostri piedi. Le pietre stanno sotto i nostri piedi perché non hanno dignità. Se la calpestiamo restiamo calpestati. Le pietre sono indentità, sono. La nostra dignità es-tatica è la nostra non-identità, o meglio, la nostra anti-identità, la nostra negazione ad essere semplicemente. Il capitale ci impone un’identità, ci dice che siamo. La nostra dignità risponde che non è così, che non siamo: non siamo perché facciamo, creiamo, e creando ci neghiamo e creiamo noi stessi. Debordiamo a di là di tutte le identità, tutti i ruoli e personificazioni che il capitale ci impone. Debordiamo da tutte le classificazioni. Il capitale c’impone delle classificazioni, ci divide in classi. La nostra lotta è una lotta di classe, però non per fortificare l’identità classista ma per romperla, per dissolvere le classi, liberarci da tutte le classificazioni. Questo è importante perché, tra le altre cose, rende impossibile il settarismo. Il settarismo è basato sul pensiero identitario (come dire Capitalista): dà etichette, concepisce le persone come il contenuto di una classificazione. Se il nostro punto di partenza è la dignità, questo implica l’accettazione che noi stessi, come tutti, siamo contraddittori, auto-antagonisti, che debordiamo da qualsiasi classificazione.
Debordiamo dall’identità, debordiamo dal tempo stesso, dal tempo identitario, dal tempo dell’orologio. Il nostro mondo di dolore e dignità, il nostro mondo sfumato di fare contro-e-oltre del lavoro astratto, è un mondo di morti-non-morti e di nati-non-nati. I nostri morti non sono morti, stanno aspettando. Come dice Walter Benjamin, e come dicono gli zapatisti, i morti stanno aspettando la loro redenzione. Vedemmo i nostri padri con la furia nelle mani e ora dobbiamo redimerli. Morirono nell’intento di creare un mondo degno, ora tocca a noi redimerlo, creando questo mondo. Il mondo per il quale lottarono i nostri morti non esiste ancora, però questo significa che esiste ancora-no, come dice Ernst Bloch. Se le lotte del passato esistono nel presente del nostro mondo, esiste anche un futuro possibile. Il mondo che ancora non esiste, realmente esiste ancora-no, nelle crepe, nei nostri sogni, nelle nostre lotte, nelle nostre fratture con il mondo attuale, le nostre creazioni che prefigurano un mondo “altro”, nella sempre fragile esistenza del futuro possibile nel presente.
Fragile, sfumato, mezzo invisibile, sempre barcamenandosi al bordo dell’impossibilità, questo è il mondo che abitiamo, poveri ribelli pazzi che non hanno nessuna certezza, solo una – il grido del No contro il capitalismo, contro questo mondo che ci sta distruggendo e che sta distruggendo tutta l’umanità. A volte sembra che non ci sia speranza. La nostra dignità sta lì sempre, però spesso sembra profondamente addormentata, drogata dal denaro, il lavoro o la paura. La nostra es-tasi sta sempre lì, però sembra appiattita sotto il peso della quotidianità. La nostra non-identità sta sempre lì, però sembra totalmente incarcerata dentro l’aurea dell’identità. L’ancora-no sta qui, però sembra spesso legato alle lancette dell’orologio che dicono che tutto continuerà ad essere uguale, che non è possibile alcun cambiamento.
Come si risveglia la nostra dignità? Come tocca altre dignità? Come si parlano le dignità? Siamo i “senza voce”, come dicono gli zapatisti. Non solamente perché non abbiamo accesso a radio e televisioni, ma anche per altre ragioni. La nostra lotta, essendo anti-identitaria nel senso che si pone contro e oltre le identità, è nello stesso tempo anti-concettuale, è come dire che è una lotta che frammenta e va oltre i concetti, che spinge oltre il linguaggio della concettualità. Il concetto identifica, recinta, può solo rincorrere questo movimento che frattura, rompendo identità e concetti. Il linguaggio dell’identità deve essere concettuale (per intendere e criticare quello che stiamo facendo) però deve andare oltre al concettuale, esplorando altre forme di espressione. La teoria rivoluzionaria, quindi deve essere rigorosa e anche poetica.
Il nostro mondo è un mondo in cerca di un linguaggio, non solo ora ma costantemente, in parte perché il mondo del lavoro astratto ci sta rubando il linguaggio in ogni momento, ma anche perché noi stiamo inventando nuovi “fare” e nuove forme di lotta in ogni istante. La teoria sociale, l’arte e la poesia sono parte di questa ricerca costante.
Sono gli zapatisti che hanno compreso meglio di altri questa ricerca e l’unità dell’estetica e la rivoluzione. Mi riferisco non solamente al linguaggio dei loro comunicati ma anche al loro profondo senso teatrale e simbolico. Quando si sollevarono il primo di gennaio del 1994, espressero non solamente la loro propria dignità, ma anche risvegliarono le nostre dignità. “Nella misura che proliferavano i comunicati ribelli, ci rendemmo conto che la rivolta in realtà veniva dal fondo di noi stessi”, come ha detto Antonio Garcia de Leòn. La dignità degli zapatisti risuonò con le nostre dignità addormentate e le risvegliarono.
Una politica della dignità è una politica della risuonanza. Riconosciamo la dignità nella gente al nostro fianco, seduta vicino a noi, per le strade, nel supermercato, e cerchiamo la forma di risuonare insieme a lei. Non è questione di educare le masse, o di elevare le loro coscienze, è invece riconoscere la ribellione che è inseparabile dalla oppressione, e tentare di coglierne l’onda, tentare di’interpretarla in una riunione di dignità. Non è questione di convincere necessariamente le persone ma più che altro di toccare qualcosa dentro di loro. Questa è la domanda che dovrebbe stare dietro ogni azione capitalista: come risuoniamo con le altre dignità che ci circondano? Questa domanda ovvia, facilmente si perde quando adottiamo concetti chiusi e identitari della nostra lotta.
Come risuoniamo con le dignità che ci circondano?
È necessaria innanzitutto una sensibilità acuta per riconoscere le molteplici forme della ribellione contro l’oppressione, e pertanto il rifiuto d’ogni dogmatismo. Dobbiamo ascoltare l’inascoltabile, vedere l’invisibile.
Un mondo di dignità non può essere un mondo di “io so, tu non sai”. È un mondo semmai del non-sapere condiviso. Quello che ci unisce è che sappiamo che dobbiamo cambiare il mondo, però non sappiamo come farlo. Questo implica una politica di domandare-ascoltando, ma anche una sperimentazione costante. Non sappiamo come toccare le dignità che ci circondano, quindi sperimentiamo.
Sperimentiamo, ma tenendo presente che l’unica arte che ha senso, come l’unica teoria sociale che ha senso, è un’arte (o una teoria sociale) che s’intende come parte della lotta per rompere il capitalismo, per superare la società attuale. Questo significa comprendere quello che stiamo facendo come parte (parte eterodossa senza dubbio) di un movimento, o di un movimento dei movimenti. E sempre con il principio centrale dell’asimmetria. Non vogliamo essere loro, non vogliamo essere come loro.