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E’ il ‘62 e don Eduardo ha otto anni. Suo padre minatore, che sarebbe morto diciotto mesi dopo coi polmoni schiantati dalla polvere di stagno, cammina per le strade di Orinoca e di nuovo si ferma e si toglie il cappello. Passa un padròn bianco - in verità è un criollo, un mezzosangue discendente dell’aristocrazia spagnola dei conquistadores. Sui marciapiedi loro, gli aymara, gli orgogliosi guerrieri delle Ande che costituiscono più di un terzo della popolazione boliviana – con i quechuas degli altipiani centrali e i guaranìs delle “terre basse” amazzoniche fanno la popolazione più “indigena” dell’America meridionale - non possono camminare. Rimasto orfano, don Eduardo viene mandato a Cochabamba a lavorare. Quasi nello stesso periodo suo cugino Evo Morales, che fa il pastore di lama, sta andando in Argentina a raccogliere canne da zucchero per poche monete al giorno, un piatto di spaghetti fritti e una tazza di thè.
Meno di mezzo secolo dopo don Eduardo si appresta a camminare ben al centro della Avenida Ayacucho, una delle arterie che attraversano la sua città adottiva, per andare verso la sede della corte elettorale e votare per la Nuova Costituzione Politica dello Stato della Bolivia (CPE). E’ uno dei 3.891.397 cittadini boliviani – su una popolazione di circa 8 milioni - chiamati a rispondere il 25 gennaio al referendum popolare che chiede di approvare – o rifiutare - il testo costituzionale, frutto del faticoso cammino dell’Assemblea Costituente iniziato due anni fa. Le previsioni parlano di una vittoria certa dei sì: oltre il 65%. Ma c’è che si spinge più in là, forte del granitico consenso popolare del Presidente, confermato ad agosto con oltre il 70% dei voti favorevoli.
Don Eduardo Yssa, che è diventato uno dei rappresentanti più importanti e rispettati dei Comités del Agua della Zona Sur di Cochabamba, dice che è un passo da gigante, quello che sta facendo la sua Bolivia. Non è un giudizio superficiale: è uno dei depositari della sabiduria – la antica saggezza -aymara. E’ un uomo che viene ascoltato. Essere referente dei comitati dell’acqua della zona sud di Cochabamba – zona poverissima, organizzata in 1200 comitati per gestire l’acqua delle famiglie – è una responsabilità. Al fianco del sindacalista Oscar Olivera, a volte davanti a lui, don Eduardo è stato uno dei protagonisti della Guerra dell’Acqua del 2000. E’ cugino di Evo Morales, il primo presidente indigeno della Bolivia, che non ha mai mancato di contestare, quando lo riteneva opportuno. Ma oggi vuole sottolineare la portata storica dell’evento: “Questa Costituzione è un grande progresso per tutti i popoli oppressi della terra. Evo ha cumplido – riprendendo lo slogan elettorale di Morales “Evo cumple”, Evo realizza - Noi è da tempo che siamo preparati a questo, Evo stesso è il risultato delle mobilitazioni, dei morti, della resistenza del nostro popolo”.
Si pensa al cammino verso la democrazia di questo Paese incastonato fra le Ande e l’Amazzonia, il più povero del suo continente, che nel 2000 caccia a suon di proteste la multinazionale Bechtel al grido di “el agua ese nuestra, carajo!” (L’acqua è nostra, cavolo!), indicando così l’alternativa al capitalismo selvaggio dell’Occidente. Si pensa alla sanguinosa guerra del gas, tre anni più tardi, con l’intera “nazione aymara” a combattere il dittatore neoliberale Sanchez de Lozada. Ai cocaleros del Chapare, i raccoglitori di coca, massacrati dagli eserciti negli anni Novanta ed oltre, dai quali comincia a sorgere politicamente il sindacalista Evo Morales. Fino alla conflittualità recente, che ha costellato lo stesso governo socialista di Morales: oltre trenta morti in due anni e mezzo di mandato, la recrudescenza delle destre latifondiste e a maggioranza bianca impaurite dalla prospettiva di perdere i propri privilegi e inorridite dall’avanzata politica di quegli indigeni, di quei cholos, che hanno sempre servito nelle loro case e coltivato i loro campi, e che ora siedono in Parlamento masticando foglie di coca e indossando i ponchos rojos dei guerrieri. E che ora stanno realizzando quel progetto di stato socialista ed indigenista che la CPE ha in seno.
Le critiche alla nuova Costituzione, in verità, sono feroci e trasversali: l’ opposizione che mai ha fatto scemare la sua violenta campagna denigratoria, grida allo scandalo per l’impronta a suo dire razzista “al contrario” della CPE. Ampliamente sostenuta dall’establishment ecclesiastico boliviano, ha fatto suo lo slogan della Costituzione “anticristiana”: “Elige a Dios, vota no”, dicono gli spot televisivi e i poster in ogni angolo dell’Oriente boliviano: “Scegli Dio, vota no”. “Lo Stato assicura la libertà religiosa – spiega lo studioso Ardaya – ma si propone di rafforzare le culture originarie come espressione dell’identità stessa della Bolivia”.
E’ dallo stesso bacino politico di Morales che vengono le stoccate più violente: “Si tratta di un progetto politico che vuole assicurare al MAS, il partito socialista al governo, un controllo assoluto”, viene detto. Da altre parti si grida al tradimento, perché l’Evo ha disatteso i principi rivoluzionari delle guerre del gas e dell’acqua che volevano la rifondazione dell’idea stessa di Stato, con il controllo sociale nelle mani del popolo. Ma sulla riforma agraria che si gioca la partità più importante: assieme alla Costituzione, viene sottoposta a referendum la spinosa questione della redistribuzione delle terre, uno dei cardini della campagna elettorale evista alle presidenziali. Un manipolo di famiglie vanta il possedimento di intere regioni del Paese: sono i militari, gli imprenditori, gli schiavisti che dittatura dopo dittatura, si sono accaparrati il potere agropecuario – ma anche idrocarburifero, petrolifero, minerario – della Bolivia. Il referendum chiede se porre il tetto a 5000 o 10.000 ettari di possedimento terriero. Ma – sorpresa delle trattative degli ultimi mesi – non ha posto la retroattività. Anzi. Il Governo Morales si è sfiancato a spiegare che la proprietà privata verrà protetta e riconosciuta. “Si protegge l’impresa privata e la si favorisce: questo è un principio neoliberale ed un’esprorpiazione del potere sociale”, commenta il sociologo aymara Pablo Mamani. Che aggiunge: “C’è la questione delle autonomie: quelle indigene chissà quando prenderanno vita. Mentre l’autonomia dei dipartimenti dell’Oriente boliviano [quelli secessionisti], già stanno mettendo in pratica i propri statuti autonomici”. Il tema delle autonomie – la CPE descrive uno stato plurinazionale socialista ed indigenista con il riconoscimento di 36 nazioni indigene –preoccupa coloro che non riescono a comprendere come un’impronta socialista e statalista possa andare a braccetto con l’idea indigena di nazione. Le critiche non si fermano a questo. E don Eduardo lo sa bene. Lui si limita a sottolineare come la Nuova Costituzione boliviana sia il risultato di lotte in nome dei diritti ancestrali delle popolazioni indigene, della difesa dei beni comuni come l’acqua e la terra, del riscatto di cinque secoli di silenzio e sottomissione. Per loro, quelli che “de pie, nunca de rodillas” (mai sulle ginocchia, sempre in piedi), la democrazia, la politica, il mondo intero, è un processo, è un divenire. Pachacuti, lo chiamano: il cambiamento rivoluzionario dell’esistente. Cita, come sempre, la frase del grande guerriero indigenoTupac Katari, che nel 1781, poco prima di essere squartato dagli spagnoli per aver guidato la rivolta contro gli invasori, aveva detto :”Tornerò, e saremo milioni”. E pensa a suo padre, mentre cammino ben al centro della Ayacucho.