La crisi alimentare in corso è una delle più grandi sfide che i poveri del mondo stanno affrontando, dato che mette alla prova tanto i loro movimenti sociali e politici quanto le loro forme di sopravvivenza. Come è stato già scritto nelle ultime settimane, la feroce speculazione con le
commodities è una prova palpabile della decadenza del capitalismo che può sopravvivere solo se si basa sulla “accumulazione per privazione”. Se il neoliberalismo è la guerra per appropriarsi delle risorse naturali o beni comuni, l’attuale speculazione sugli alimenti può essere intesa come una guerra contro la vita (dei poveri), come una guerra biopolitica per il dominio dei corpi.
Nonostante le analisi più serie fino ad adesso assicurino che la causa di tutto sia l’aumento dei prezzi degli alimenti, ancora non propongono soluzioni. Queste non arriveranno dall’alto. Un recente articolo di Aníbal Quijano (“Decolonizzazione del potere: l’orizzonte alternativo”) afferma che “il capitalismo coloniale/moderno non genera né genererà più occupazione, a meno che non sia “precaria” e “flessibile”, né più servizi pubblici, né più libertà civili”. Pertanto le alternative non verranno né dagli Stati né dalle istituzioni e organizzazioni internazionali, le cui azioni, spesso spettacolari e mediatiche, riescono solo a mettere toppe a situazioni puntuali però mai trovano soluzioni di fondo.
Per questo innanzi tutto sarebbe necessario smettere di considerare gli alimenti come commodities, cioè valori di scambio al servizio dell’accumulazione del capitale. Non esistono però istituzioni capaci di farlo, poiché urterebbero necessariamente con le multinazionali ed i governi che le appoggiano, tra cui i cosiddetti “progressisti”del Cono Sud del Sudamerica. La sicurezza alimentaria che richiedono i popoli appare in alcune pratiche de los de abajo, come i Sem-Tierra del Brasile e il neozapatismo del Chiapas, in linea con la esperienza di milioni di contadini e indigeni che continuano coltivando i propri pezzi di terra, diversi ed eterogenei. Per farlo resistono all’avanzamento delle monoculture e del militarismo, due facce di uno stesso processo.
Nelle grandi città, dove vive la maggior parte della popolazione del nostro continente, avanzano alternative alla crisi degli alimenti. Nelle periferie di molte città latinoamericane abbondano gli orti comunitari e le coltivazioni di alimenti, familiari o collettivi, che rappresentano la strada che milioni di poveri urbani continueranno a seguire, nella misura in cui si aggraverà quella che un’abitante di Città Bolivar, sobborgo di Bogotá, definisce come “guerra mondiale per il cibo”.
In uno dei quartieri di questa gigantesca periferia urbana, chiamato Potosí, circondato da colline dove i paramilitari dettano legge, circa 15mila abitanti inventano forme di agricoltura urbana. In soli cinque anni hanno messo in piedi decine di orti nella scuola-comunità Cerros del Sur, epicentro del movimento, nei terreni incolti del quartiere, nelle proprie abitazioni e nelle proprie terrazze. Il più grande si trova nel giardino dell’infanzia, dove i vicini si alternano nel minga (lavoro comunitario rotativo) per produrre alimenti organici che si rovesciano nel ristorante comunitario, dove 400 bambini schivano la denutrizione.
Le coltivazioni fanno parte di un progetto di biosicurezza alimentare che include anche un mercato, inaugurato poco tempo fa, dove i contadini accorrono a vendere direttamente ai vicini, senza passare per gli intermediari. Il mercato quindicinale è la forma visibile dell’alleanza rurale-urbana, tra i piccoli contadini e produttori e consumatori urbani, però è anche uno spazio dove i poveri si relazionano tra loro, sistemano pentole comunitarie, ballano e cantano. Un’immagine di mercato simile a quella che ci descrisse Fernand Braudel: lo spazio della vita economica, trasparente, di competenza controllata, il terreno della gente comune e dunque dei benefici esigui. Questo tipo di mercato è stato letteralmente schiacciato dal capitalismo, dove i monopoli sostituiscono la comunicazione orizzontale con il controllo verticale.
Uno dei maggiori successi degli orti di Potosí sono le coltivazioni di quinoa, cereale andino altamente nutritivo e complementare alla dieta popolare. I vicini si autoriforniscono di quinoa e hanno creato la Corporación Comunitaria Delicias del Sur, che raccoglie, inscatola e commercializza il prodotto. Il mercato, situato nella piazza del quartiere, è teatro di scambi di sementi e di “giri popolari di affari” nei quali si stabiliscono accordi tra i produttori e consumatori popolari, tra i quali le trattorie comunitarie di Ciudad Bolívar. Uno degli accordi è potenziare il baratto, facendo sì che ogni produttore destini il 5% della sua produzione allo scambio senza moneta, perché tutti possano avere accesso ad altri alimenti e prodotti.
La sicurezza alimentare fa parte di un processo di costruzione di un potere dal basso. Non è solo una questione tecnica o di diffusione di saperi, come pretendono le ONG. Per questo motivo a Potosí hanno creato un consiglio comunale elettivo e contano su decine di coordinatrici di isolati che vegliano per il consolidamento della comunità. Sono spazi dove si prendono le decisioni del quotidiano e quelle che interessano la comunità sul lungo periodo. Questa costruzione di potere ha permesso loro di potenziare la produzione di valori d’uso, prima confinati allo spazio domestico, fino a convertirsi in uno delle modalità egemoniche di produzione nel quartiere.
Si può replicare che si tratta di esperienze locali che difficilmente possono risolvere problematiche tanto gravi e ampie come la crisi alimentare. Tuttavia, conviene non dimenticare che le grandi trasformazioni, come affermò il Subcomandante Marcos durante il Colloquio Aubry lo scorso dicembre, “non cominciano né in alto né con fatti monumentali ed epici, bensì con movimenti piccoli nella loro forma e che appaiono come irrilevanti per il politico e l’analista che stanno in alto”.
Traduzione di Andrea Lorini
pubblicato il 23 Maggio su La Jornada, Messico
Articulo original en castellano