Documento senza titolo
“En tiempos inmemoriales se erigieron montañas, se desplazaron ríos, se formaron lagos. […]Poblamos esta sagrada Madre Tierra con rostros diferentes, y comprendimos desde entonces la pluralidad vigente de todas las cosas y nuestra diversidad como seres y culturas. Así conformamos nuestros pueblos, y jamás comprendimos el racismo hasta que lo sufrimos desde los funestos tiempos de la colonia”.(1)
E’ un brano del cosiddetto preambolo alla nuova Costituzione statale della Bolivia che votata attraverso referendum popolare il 25 gennaio 2009: un evento epocale per il Paese andino, che ha portato circa 4 milioni di aventi diritto – su una popolazione di 8, per il 60 % indigena – andare a votare una Costituzione che parla di 36 “nazioni indigene”, di autonomie regionali e culturali, di acqua come bene comune e diritto umano ed ambientale, di cosmovisione delle popolazioni originarie. Un preambolo – cosa che mancava negli altri testi costituzionali boliviani: né nella Constitucion Política del Estado del ‘38, nè in quella del ‘67, si era sentita l’esigenza di un’introduzione che ne raccogliesse le linee guida e lo spirito - in cui si parla di Madre Terra, di colonialismo, di razzismo. Praticamente, la storia della Bolivia. La nuova Costituzione della Bolivia potrebbe essere vista come la meta raggiunta di un decennio di lotte civili di difesa dei beni comuni e per l’autodeterminazione del popolo boliviano, che idealmente comincia con la Guerra dell’Acqua di Cochabamba, nell’aprile del 2000, e che prosegue attraverso tappe storiche fondamentali fra cui la Guerra del Gas del 2003, le guerre della coca nel decennio dei ’90 e oltre, le marce indigene per la terra, l’elezione del primo presidente indigeno, l’aymara Evo Morales, nel gennaio del 2006. La caratteristica comune di questo cammino verso la democrazia – costellato da dittature militari e colpi di stato - si può riassumere con le parole di uno dei suoi più insigni rappresentanti, il sindacalista e portavoce della Coordinadora del Agua y la Vida[il coordinamento cittadino nato all’indomani della Guerra dell’Acqua], Oscar Olivera: “con la Guerra dell’Acqua, il popolo boliviano ha recuperato la parola e perso la paura”.
In effetti, la capacità organizzativa che dimostra la popolazione boliviana nelle giornate dell’aprile del 2000, quando in difesa dell’acqua pubblica si mobilita e riesce a far rescindere il contratto con la multinazionale statunitense Bechtel, è riconosciuta come uno straordinario laboratorio politico. Raquel Gutierrez, storica ed economista messicana, incontrata alcuni mesi fa a Cochabamba, spiegava: “ Due cose fondamentali vennero fatte nell’aprile del 2000: da una parte si cominciò ad opporsi al potere delle multinazionali che dall’avvento del neoliberalismo, negli anni ’80, si erano impadronite dei beni comuni della popolazione. Dall’altra, organizzandosi nella Coordinadora, la gente si riappropriò della capacità di intervenire direttamente in tutto quello che era la cosa pubblica. Questo fu come una torcia che venne accesa, e che venne poi portata avanti negli Altipiani e nella città di El Alto, verso il recupero del saqueado (di quello che era stato rubato)”.
La riappropriazione dei beni – la terra, le risorse del sottosuolo, l'acqua – e della loro gestione, è stata una delle bandiere della grande onda rivoluzionaria dei movimenti sociali boliviani. In tutte le "guerre" citate infatti, il controllo sociale dal basso prendeva il sopravvento su quello legale – ma illegittimo – dello Stato vigente: le dittature militari dei vari presidenti Hugo Banzer, Sanchez de Lozada, Carlos Mesa. Lottava per la difesa di diritti inalienabili, quali l'accesso all' acqua o allo sfruttamento del proprio gas, di cui la poverissima popolazione boliviana non aveva mai potuto beneficiare, pur possedendo un bacino idrocarburifero di immense dimensioni (lo 0,4 % di quello mondiale, secondo solo a quello del Venezuela). Lo sforzo della gente "sencilla e trabajadora" (semplice e lavoratrice), convogliata nei movimenti indigeni, operai, contadini, studenteschi, aveva non solo come obiettivi il recupero della sovranità popolare e il superamento del modello neoliberale, ma, più in profondità, l'elaborazione e l'attuazione di un nuovo sistema di relazioni sociali. Di un nuovo "ordine". Una speranza non solo della gente boliviana, ma di parte del mondo che assisteva ai fatti col fiato sospeso.
Le richieste della popolazione boliviana fin dal 2000 erano state l’accesso all'acqua pubblica, l'Assemblea Costituente e la nazionalizzazione degli idrocarburi. Evo Morales, quando fu eletto, fece proprie queste rivendicazioni, promettendone la realizzazione. Che si è rivelata con luci ed ombre. “Quando Morales ricevette la sua carica come massimo dirigente indigeno sulle rovine di Tiwanacu, sul lago Titicaca, un sentimento di orgoglio inondò i cuori di migliaia di donne e uomini della campagna e della città”, racconta Boris Rios della Fundacion Abrìl (fondazione boliviana che si occupa di cooperazione internazionale), in Italia per un ciclo di conferenze. “Tutta l’ondata delle mobilitazioni ebbe il suo corso tra gli anni 2000 e 2005. Le elezioni del dicembre del 2005, dalle quali Evo Morales uscì vincitore con il 54%, furono esse stesse conseguenza di questa forza creatrice. In tutto questo, confondere il processo che ha vissuto e sta vivendo la Bolivia, con il governo, è sbagliato. Di fatto il governo ha commesso gravi errori, il primo fra i quali il cooptamento dei movimenti sociali all’interno del governo, che hanno permesso alla destra di risollevarsi e rafforzarsi”. E ancora, Oscar Olivera in un’intervista dell’estate scorsa, avvertiva: “E’ da trent’anni che partecipo alle lotte sociali come dirigente sindacalista, come operaio, come portavoce dei movimenti sociali. Ma mai ho visto una situazione di tale confusione, con i movimenti sociali ignorati, dimenticati, disprezzati”.
Una delle conseguenze letali del rafforzamento dei partiti oppositori al governo Morales è stata la spinta secessionista delle cinque regioni ricche e a maggioranza bianca della Bolivia, che dall’avvento della presidenza di Evo Morales avevano cominciato una violenta campagna denigratoria nei confronti del nuovo presidente e della sua politica di redistribuzione delle ricchezze.
Il triste emblema di questa epoca di scontri fratricide, è il “masacre de El Porvenir”. L’11 settembre 2008 una banda di paramilitari agli ordini del prefetto della regione del Pando, Leopoldo Fernandez – che assiema alle regioni di Santa Cruz, Tarija, Chuquisaca e Beni pretendevano l’autonomia dal governo centrale – ha teso un’imboscata ad una colonna di contadini. I morti accertati sono stati subito 30, oltre 100 sono rimasti dispersi per settimane. Fra loro, donne e bambini.
Una strage senza precedenti, nonostante la storia della Bolivia parli di migliaia di morti in scontri civili e con l’esercito. Non solo per la brutalità, ma anche perché ad uccidere i contadini del Pando c’erano altri boliviani: giovani esaltati, caricati da mesi di campagne razziste dove si tornava a dire, come nel secolo passato, “morte agli indios”, e inquadrati in un supposto esercito parallelo, la Union Juvenil. Le fazioni avverse al presidente aymara tornavano a sbandierare la propria supposta superiorità razziale di cambas – i bianchi delle terre d’Oriente, discendenti dei conquistadores – rispetto ai kollas, indigeni degli altipiani andini. Lo stesso rapporto finale dell’ UNASUR (Unione delle Nazioni Sudamericane) del 27 novembre scorso, parla de El Porvenir come una “serie di vere esecuzioni sommarie ed extragiudiziali, che rispondevano ad un preciso piano destabilizzatore e criminale”.
Dunque, se da una parte la Bolivia diventa simbolo della rivendicazione popolare per la gestione dei beni comuni e contro il sistema economico neoliberale, dall’altra la sua popolazione – a maggioranza contadina ed originaria - incarna a caro prezzo quel rinascimento indigeno che l’America latina vive dall’inizio di questo secolo.