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Il castello costruito sulla bolla della popolarità del presidente Uribe sembra iniziare a sgretolarsi. Mai nei sei anni della sua presidenza c’erano state proteste tanto forti, né per durata, né per intensità, né per la partecipazione. L’immagine presidenziale, costruita sulla retorica belligerante, ha nascosto i temi socali dietro il «sacrifico per vincere la guerra contro i terroristi». Però oggi i problemi della vita reale dei colombiano stanno esplodendo, aggravati da una crisi economica che colpisce duramente tutto il paese.
Dal 12 ottobre, che la retorica occidentale indica come il giorno in cui l’America fu scoperta, la protesta indigenza si è aggiunta a quella di vari settori sociali. La magistratura ha concluso pochi giorni fa uno sciopero di 43 giorni, un fatto senza precedenti; i tagliatori di canna da zucchero della regione della Valle del Cauca da più di un mese occupano le raffinerie e chiedono dignità e la contrattazione diretta per avere un salario giusto: i trasportatori hanno scioperato fino a pochi giorni fa. Gli studenti preparano la protesta per il 23 ottobre.
Il 12 è iniziata la Minga dei popoli indigeni, per ricordare 516 anni di resistenza. Le mobilitazioni si sono avviate in tutto il paese e sono diventate un catalizzatore della protesta, raccogliendo appoggio morale e materiale sia dalla Colombia che dal resto del mondo. Alla Minga si sono aggiunti la Centrale unitaria dei lavoratori [Cut], la più grande del paese, il sindacato dei giudici, i tagliatori di canna, studenti e insegnanti, contadini e molti altri ancora. Una volta di più i popoli indigeni colombiani, 102 contando anche quelli non ufficialmente riconosciuti tali, stanno dimostrando di essere la coscienza e la forza morale di un paese che ha dimenticato come lottare per i propri diritti, ubriacato dalla retorica presidenziale. Non è un risultato casuale, gli indigeni colombiani e i Nasa soprattutto, hanno tessuto relazioni con altri settori sociali ormai da anni, con l’intento di trovare punti comuni minimi sui quali costruire una serie di azioni comuni per cercare di aggirare le divisioni storiche tra i settori sociali colombiani.
In vari dipartimenti del paese [Guajira, Cordoba, Sucre, Atlantico, Chocò, Norte de Santander, Risaralda, Caldas, Quindìo, Valle del Cauca, Tolima, Huila, Casanare, Meta e Boyacà] migliaia di indigeni sono ancora mobilitati e chiedono al governo di rispondere su cinque punti fondamentali che, come dicono loro, ne contengono molti altri. Una delle ragioni della protesta è il numero di omicidi di indigeni che è aumentato molto nelle ultime settimane. Secondo la Organizzazione nazionale indigena della Colombia [Onic], «negli ultimi sei anni sono stati assassinati 1253 indigeni in tutto il paese, ogni 53 ore un indigeno viene assassinato e almeno 54 mila indigeni sono stati espulsi dai propri territori». Solo negli ultimi quindici giorni, sono stati uccisi 19 indigeni.
Un’altra ragione è che lo stato non ha mantenuto gli accordi firmati con le comunità. Un esempio rappresentativo è quello del popolo Nasa. Il 21 dicembre 1991, 20 indigeni, compresi donne e bambini, furono massacrati con la complicità della forza pubblica nel massacro del Nilo. Lo stato era responsabile di questo massacro e lo ha riconosciuto a livello internazionale e si era impegnato a rispettare le raccomandazioni della Commissione interamericana per i diritti umani [Cidh] in materia di giustizia e risarcimenti individuali e collettivi. Il presidente Ernesto Samper in persona chiese pubblicamente scusa a nome dello stato colombiano alle vittime di quel massacro, ai loro familiari e al popolo Nasa. Fino a oggi, però, gli accordi non sono stati rispettati, anzi, l’attuale governo si era impegnato, il 13 settembre 2005, con un ultimo accordo, a completare quanto previsto dagli accordi nel giro di due anni. Finora però non è stato rispettato l’impegno di restituire ai Nasa 15 mila ettari delle loro terre.
Gli indigeni si oppongono anche a una serie di leggi come lo Statuto rurale, il Codice delle miniere, la Legge sulle acque, la Legge forestale, tutte promosse dal governo di Uribe, che «scelgono di favorire gli interessi economici e contribuiscono alla spoliazione territoriale», secondo la Onic. Queste leggi sono contrarie all’articolo 120 della Costituzione colombiana del 1991 che dice che «lo sfruttamento delle risorse naturali nei territori indigeni da parte dello stato si farà senza danneggiare l’integrità culturale, sociale ed economica degli stessi e ugualmente sarà soggetto a informazione preliminare e alla consultazione preliminare delle comunità indigene interessate».
Negli ultimi sei anni, secondo la Onic, 53885 indigeni sono stati costretti a lasciare le proprie terre e oggi 18 popoli indigeni colombiani corrono il rischio di scomparire perché sono rimasti con meno di 200 componenti e 10 ne hanno meno di 100. Come ripetono, «un indigeno senza terra, è un indigeno morto». Questo diritto alla terra e alla vita è contemplato nella Dichiarazione delle Nazioni unite sui diritti dei popoli indigeni, approvata nel settembre 2007, firmata da tutti i paesi latinoamericani tranne la Colombia. Oggi gli indigeni si mobilitano anche perché il paese la approvi.
I comunicati della Onic riferiscono che a Tolima, circa 2 mila indigeni Pijos e Nasa marciano pacificamente tra El Guamo e El Espinal, così come fanno 400 indigeni Embera Chami verso Armenia, capoluogo del Quindìo. A Caldas, la concentrazione avviene nel municipio di Riosucio, mentre nel Chocò gli indigeni continuano l’occupazione pacifica degli uffici della Defensoria del pueblo a Quibdò. Nella sede della Defensoria ci sono più di 300 indigeni Embera Dovida e Katios, che lavorano a formare commissioni regionali su temi come la salute, l’educazione e la sicurezza alimentare. Fuori dall’edificio, un gruppo altrettanto numeroso di persone appoggia l’occupazione pacifica.
Nella Valle del Cauca, sulla strada che congiunge Palmira a Popayan, la Florida e Pradera, ci sono più di mille indigeni Embera Chami, Eperaras Saipidaras e Wannan. In Guajira, nonostante l’inverno e i disastri in molte zone rurali, i Wayùu si mobilitano sulla strada per il capoluogo del diparimento. I marciatori, fin da venerdì, «purificano» il territorio con canti, danze e cerimonie; saranno ricevuti da indigeni Wiwas, da studenti indigeni e da altri settori sociali. Il punto di incontro previsto è l’università di Guajira. A Cordoba, migliaia di indigeni Zenù ed Embera Katios si sono uniti alla protesta. In totale, si calcola che almeno 40 mila indigeni sono scesi in strada e nei municipi per unirsi alla Minga nazionale di resistenza indigena.
Gli scontri più duri ci sono stati nella località La Maria-Piendamò, nel Cauca, dove 20 mila indigeni Guambiana, Nasa, Yanacona, Totorò, Cononuco ed Eperara-Saipirara hanno occupato la Panamericana tra Cali e Popayan, per richiamare l’attenzione nazionale sulla protesta. Lo stato ha inviato uno squadrone mobile antiosommossa, dichiarando che la strada sarebbe stata liberata in dieci minuti. La resistenza indigena, invece, è durata più di 24 ore. A La Maria c’è stato uno scontro molto duro, durante il quale tra gli indigeni ci sono stati due morti e più di 70 feriti. La polizia nazionale, sotto la responsabilità del presidente Uribe, del governatore del Cauca Guillermo Gonzalez Mosquera e del comandante del reparto antisommossa colonnello Jorge Cartagena ha usato le armi contro gli indigeni che si difendevano solo con i bastoni del comando e con le pietre. Le forze di polizia, oltre ai gas e ai machete, hanno usato pallottole che al momento dell’impatto generano una grandine di schegge. Queste armi non convenzionali sono state consegnate mercoledì scorso ai delegati internazionali presenti nella zona.
La comunità internazionale sta accompagnando la protesta. Sono arrivati funzionari delle ambasciate del Canada, della Svizzera, della Svezia, degli Stati uniti e della Spagna, nonché rappresentanti delle Nazioni unite, dell’Unione europea, dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, dell’Unicef e dell’Ufficio dell’Onu per il coordinamento degli aiuti umanitari. I delegati internazionali hanno chiesto alla forza pubblica di non entrare nel territorio indigeno, perché secondo la costituzione, le autorità indigene sono autorità dello stato nei loro territori. Le forze di polizia, una volta liberata la strada, sono invece entrate nel resguardo e hanno bruciato diverse abitazioni. Oltre che dai proiettili, le comunità indiene sono state colpite da un’offensiva mediatica vergognosa.
Vari mezzi di comunicazione non hanno fatto altro che citare fonti governative, senza darsi la pena di verificare le notizie e accusano gli indigeni di usare armi da fuoco e di essere stati infiltrati dalle Farc. Contro queste bugie parlano i fatti: i morti e i feriti indigeni ritratti nelle foto. Il processo che ha portato all’occupazione della Panamericana viene dal basso, dai membri della comunità che in assemblea propongono ai membri dei loro «cabildos» le azioni da compiere. Non c’è guerriglia, ci sono invece le decisioni di un popolo molto cosciente, che prende decisioni in modo comunitario.
La criminalizzazione della protesta è un esercizio molto praticato in Colombia, dove le Farc sono diventate la scusa per schiacciare i movimenti sociali. Secondo il presidente, sono guerriglieri gli studenti, i giudici, gli indigeni, i professori, i trasportatori e i contadini. Se fosse così, la sua politica di sicurezza democratica sarebbe un vero fallimento, visto che tutto il paese sarebbe infiltrato dalla guerriglia.
Gli stessi che accusano i contadini di essere guerriglieri sono sotto processo per crimini connessi ai paramilitari, e questi sono crimini reali, come dimostrano i 60 parlamentari coinvolti nello scandalo della «parapolitica» o lo stesso ex governatore del Cauca, Juan José Chaux Mosquera, che così tanto ha attaccato gli indigeni Nasa. Chaux, dopo essere stato governatore è stato nominato dal presidente Uribe ambasciatore nella Repubblica dominicana, un incarico a cui ha dovuto rinunciare a causa dei suoi provati legami con i paramilitari.
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