Documento senza titolo
Edizione: 1 dicembre 2008
Le cose accadute in queste settimane in America latina e non commentate nel Mininotiziario sono molte. Ad esempio le elezioni in Nicaragua, su cui torneremo con una riflessione che riteniamo opportuna per gli equivoci e le contraddizioni messe in luce. Più importanti oggettivamente le elezioni in Venezuela che, confermando il gradimento popolare di Chavez e del Psuv, il “Partito socialista unificato venezuelano”, mostrano anche alcuni suoi limiti e contraddizioni e la ripresa della destra conservatrice. Altri fatti notevoli su cui una riflessione sarebbe pure opportuna sono la crisi Argentina, dove il debito si riaffaccia prepotente; la sconfitta della coalizione di centro-sinistra nelle elezioni amministrative in Cile; la decisione di Correa di denunciare la parte illegittima del debito ecuadoriano; le tensioni nella comunità andina aventi origine nella diversità di posizioni verso le proposte europee per il Trattato di libero commercio in discussione; l’ aggravarsi della aggressività dei narcos messicani e delle tensioni addizionali in questo paese dovute al problema della privatizzazione della società petrolifera di stato, la Pemex. E altre ancora.
Un capitolo in evidenza è quello delle lotte indigene che si infiammano, dal Cile alla Colombia passando per il Perù, la Bolivia, l’ Ecuador, il Brasile. Questo sarà tema di un prossimo mininotiziario, senza dimenticare però i temi ora accennati.
La ripercussione in A.L. della crisi economica e finanziaria mondiale di cui abbiamo parlato in un precedente bollettino probabilmente farà riesplodere in molti paesi il problema del pagamento del debito estero e si acutizzeranno le conseguenze del calo dei prezzi delle materie prime che si ripercuoterà prima sulle riserve monetarie di questi paesi e poi sulle loro politiche sociali interne. Si riproporrà così il problema del modello di sviluppo "alternativo" capace di far uscire la regione dalla rinnovata dipendenza dalle ragioni dell’economia dello "sviluppo" imposta dall’ esterno con la "ri-primarizzazione" delle economie latinoamericane. La ricerca di una alternativa fra liberismo e statalismo sembra ancora difficile. Quella che segue è una riflessione sul problema di quale "nuova" economia a partire da un vecchio documento dei Sem Terra.
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[...] Una delle obiezioni fatte con frequenza di fronte alle critiche alle politiche di "sviluppo" ed alla affermazione della necessità di "uscire dallo sviluppo", è che questo discorso, nato al Centro, penalizzerebbe i paesi della Periferia che ancora sarebbero "in via di sviluppo". L’obiezione viene fatta sia da persone del Centro che della Periferia, queste ultime con la aggiunta dell’accusa del carattere ancora una volta colonialista di una simile proposta.
In realtà è vero che nei paesi "periferici" molti, governanti e persone, sono stati ammaliati dal mito dello sviluppo e continuano a reclamarlo. Mi sembra però che oggi sia in crescita nella periferia il numero di organizzazioni e di singoli leader popolari che, di fronte agli alti prezzi sociali e ambientali pagati a seguito delle politiche cosiddette di "sviluppo", sottopongono queste a dura critica controproponendo alternative concrete basate sulla storia e sulla cultura propria. Mi riferisco ad esempio agli zapatisti del Chiapas o alle organizzazioni andine che sempre più spesso parlano del “buen vivir” come alternativa all’idea occidentale di sviluppo.
Una delle prime elaborazioni convincenti di critica al mito dello "sviluppo" fatta dalla periferia e in cui mi imbattei anni fa, è quella della Consulta popular realizzata in Brasile nel lontano 1997. Era il periodo in cui in Brasile le organizzazioni sociali erano fortemente impegnate nell'elaborazione di un programma politico alternativo a quello neoliberista imposto al paese. Programma elaborato dal basso, basato sulle reali potenzialità del paese e in vista di una andata al potere delle stesse forze sociali. Infatti se c’era un paese che sembrava avere la forza economica e sociale per sganciarsi dal modello neoliberista, questo era il Brasile. A partire dagli anni ‘60 aveva preso corpo la "teoria della dipendenza" e si cercavano con passione le strade per rompere questo vincolo coloniale imposto dai paesi del Centro.
Fu così realizzata nell’arco di vari mesi una consultazione popolare capillare cui parteciparono movimenti contadini, sindacati, associazioni, organizzazioni cattoliche come la Pastorale della terra, intellettuali etc. Nel dicembre 1997 il più forte di questi movimenti, il Movimento Sem Terra, a conclusione della consultazione, organizzò a Itaici, nello stato di San Paolo, un incontro di tre giorni cui parteciparono centinaia di militanti in rappresentanza delle varie realtà che avevano dato vita alla consultazione. Dai vari contributi nacque un libro estremamente interessante, La opçao brasileira, l’"opzione brasiliana", che mi colpì molto per la forte elaborazione del progetto e che mi fece sperare che dal Brasile potesse nascere una alternativa concreta al sistema. Poco dopo le alleanze elettorali preparatorie al primo governo Lula mostrarono come la forza politica che avrebbe dovuto promuovere il progetto, il PT (partito dei lavoratori), di cui Lula era stato fondatore ed era leader, avesse deciso diversamente, optando per un percorso ben diverso.
Uno dei temi affrontati a Itaici fu quello del "mito dello sviluppo". Riporto letteralmente, in una mia traduzione, quanto su questo tema pubblicò la rivista Sem Terra (Anno I, n.3, 1998, pagg 51-52).
“La terza tesi esaminata nella consultazione popolare fu quella del "mito dello sviluppo", oggetto di uno dei libri più importanti di Celso Furtado. Durante molti anni le forze popolari avevano dimenticato di esaminare a fondo l’affermazione che l’ industrializzazione avrebbe fatto del Brasile un paese del Primo Mondo. Ma ancor peggio: poco a poco questo discorso portò a confondere l’ idea socialista di uguaglianza con la promessa di consentire a tutta la popolazione un modello di consumo uguale a quello delle società consumiste del mondo sviluppato. Per le classi dominanti questo era "essenza di miele" perché il consumo esteso a tutti è proprio ciò che ingannevolmente promettono e che è termine di confronto che cercano di imporre come paradigma, al fine di mostrare la superiorità del loro modello di società a quello del socialismo.
La promessa di offrire alla popolazione un modello di consumo uguale a quello dei paesi ricchi è materialmente ed eticamente insostenibile. Materialmente perché la nostra economia non ha e non avrà, per secoli, risorse sufficienti per diffondere questo modello a tutta la popolazione. Eticamente perché questo modello di sviluppo può essere raggiunto solo allorché si sfruttano economie dipendenti (o, più precisamente, i popoli dei paesi sottosviluppati), quando si aggredisce la natura al punto di minacciare il suo equilibrio, quando si impone alla società uno stile di vita individualista e narcisista inseparabile da questo consumismo.
Le forze popolari rifuggirono dalla discussione di questo problema e pertanto, quando il mito dello sviluppo apparve nudo, restarono senza argomenti, sfidate provocatoriamente dalle classi dirigenti a presentare "alternative percorribili" viste le difficoltà che il loro modello economico incontra nell’ estendere il consumo a tutta la popolazione.
Lo sforzo di formulare una nuova strategia di lottare impone alle forze popolari l’obbligo di non alimentare illusioni. Quello che può essere responsabilmente proposto come piattaforma socialista è la riorganizzazione dell’ economia del paese con l’obbiettivo di fornire a tutti un livello di consumo compatibile con le necessità di una vita degna. Questo è possibile ed è ciò che dobbiamo valorizzare politicamente ed eticamente.”
In questo momento di crisi gravissima del modello neoliberista, queste conclusioni elaborate in tempi non sospetti (1997) da un movimento popolare nato dal riscatto dei più emarginati, possono indurci a delle riflessioni importanti. Ma soprattutto ci devono trattenere da giungere a conclusioni affrettate quando vogliamo sostenere lo "sviluppo" in nome dei diritti delle classi sociali più sfavorite della Periferia, le quali mostrano di saper elaborare e parlare a proprio nome. E ci deve anche far riflettere quando diciamo che parlare di ricalibrare i modelli di crescita e di consumo nel nostro paese non è ormai possibile perché la gente non comprenderebbe. Da questo discorso dei Sem Terra ci viene anche un forte ammonimento etico a non cercare il successo del proprio progetto ammantandolo di promesse non realizzabili.